APPELLI
PER UNA MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo
da:
NONVIOLENZA.
FEMMINILE PLURALE
Care
amiche,
e' necessario e urgente organizzare quanto prima una manifestazione
nazionale contro la violenza sulle donne.
La vita di molte ragazze e di molte donne continua a essere
spezzata, le loro capacita' intellettive e affettive brutalmente
compromesse. Il femminicidio 'per amore' di padri, fidanzati
o ex mariti e' una vergogna senza fine che continua a passare
come devianza di singoli. Il tema continua ad essere trattato
dai mezzi di informazione come cronaca pura, avallando la tesi
che si tratti di qualcosa di ineluttabile, mentre stiamo assistendo
impotenti ad un grave arretramento culturale, rafforzato da
una mercificazione senza precedenti del corpo delle donne. I
numeri, lo sappiamo tutte, sono impressionanti:
- Oltre 14 milioni di donne italiane sono state oggetto di violenza
fisica, sessuale e psicologica nella loro vita.
- La maggior parte di queste violenze arrivano dal partner (come
il 69,7% degli stupri) o dall'ambito familiare.
- Oltre il 94% non e' mai stata denunciata. Solo nel 24,8% dei
casi la violenza e' stata ad opera di uno sconosciuto, mentre
si abbassa l'eta' media delle vittime.
- Un milione e quattrocentomila ha subito uno stupro prima dei
16 anni.
- Solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in
famiglia un reato, mentre il 44% lo giudica semplicemente 'qualcosa
di sbagliato' e ben il 36% solo 'qualcosa che e' accaduto'.
(Dati Istat).
La violenza sulle donne e' accettata storicamente e socialmente.
Viene inflitta senza differenza di eta', colore della pelle
o status ed e' il peggior crimine contro l'umanita'. Quello
di una parte contro l'altra. La politica e le istituzioni d'altro
canto continuano a ignorare il tema pubblicamente.
Senza una battaglia culturale che sconfigga una volta per tutte
patriarcato e maschilismo, non sara' possibile attivare un nuovo
patto di convivenza tra uomini e donne che tanto gioverebbe
alla civilta'.
Una grande manifestazione nazionale dove tutte le donne possano
scendere di nuovo in piazza a fianco delle donne vittime di
violenza e per i diritti delle donne, puo' e deve riportare
il tema al centro del dibattito culturale e politico.
Ma e' importante sapere quante siamo, perche' per farci sentire
dovremo essere in molte.
Vi preghiamo di sottoscrivere e di diffondere il piu' possibile
questo appello inoltrando il link del sito ad amiche e associazioni.
Vi invitiamo a seguire gli aggiornamenti sul sito. Un caro saluto
a tutte controviolenzadonne.org
UN
SITO CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
[Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo]
Siamo
un gruppo di donne di Roma che si stanno mobilitando per organizzare
una manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne.
Vi invitiamo a visitare il nostro sito www.controviolenzadonne.org
ed a firmare l'appello.
Attraverso la nostra mailing list (info@controviolenzadonne.org)
riceverete informazioni ed aggiornamenti sulle prossime iniziative
in vista della manifestazione.
Vi preghiamo di inoltrare il link del sito ad amiche e conoscenti.
Grazie
controviolenzadonne.org
MARIA
G. DI RIENZO: NOTIZIE D'OTTOBRE
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it)
per questo articolo.
Maria
G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo
foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista,
narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha
svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per
conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita'
di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne,
nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa
dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere
di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne
disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco
(a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo,
Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu' ampio profilo di
Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in "Notizie
minime della nonviolenza" n. 81]
"Afflitta
da dittatori e lacche', da sparatorie e pestaggi, la mia testa
e' insanguinata, ma non china". E' il testo di un volantino
che sta circolando in questi giorni in Birmania. Per chi crede
che la protesta nel paese sia rientrata con la repressione (che
sta continuando), ecco alcuni fatti. Il 5 ottobre un messaggio
e' stato affisso all'entrata della pagoda Mae Lamu a Rangoon.
Il testo recitava: "Persino io, il signore Buddha, sono
agli arresti domiciliari". Tre giorni dopo, l'8 ottobre,
sessanta palloni aerostatici, ognuno carico di manifestini,
sono volati nel cielo birmano dal distretto di Thingangyun.
I palloni erano tutti dipinti con il volto del generale Than
Shwe e la parola "macellaio". Lo stesso giorno, hanno
scioperato contro la repressione piu' di 800 lavoratori di una
fabbrica di indumenti a Rangoon. E sempre lo stesso giorno la
Federazione birmana degli studenti ha diffuso un comunicato
in cui si dichiara tra l'altro: "Riaffermiamo con chiarezza
il nostro impegno a continuare a lavorare verso lo scopo (la
fine del regime - ndr) per cui le nostre sorelle e i nostri
fratelli sono caduti... La nostra associazione rafforzera' e
rendera' piu' solidi i legami con tutte le organizzazioni studentesche,
di modo da formare un fronte comune".
*
Lotte nonviolente sono in corso anche in Congo, dove le donne
si oppongono ad un crescendo allucinante di violenze sessuali
(27.000 stupri, lo scorso anno, solo nella provincia di Kivu).
Lo studio del gruppo Safer (acronimo per "Aiuto sociale
per l'eliminazione dello stupro"), reso pubblico la scorsa
settimana, testimonia che: "ogni donna viene violata da
una media di 2,8 uomini. In altre parole, dietro ad ogni sopravvissuta
allo stupro ci sono tre uomini impuniti". Justine Masika
Bihamba, quarantaduenne, e' una delle difensore dei diritti
umani delle donne che sta tentando disperatamente di portare
alla consapevolezza internazionale quel che sta accadendo in
Congo: "Non e' solo violenza sessuale, e' tortura. Le donne
vengono assalite con oggetti affilati allo scopo di mutilarle:
coltelli, baionette, rasoi, schegge di legno. Le ferite sono
cosi' gravi che organi riproduttivi, vesciche e intestini vengono
distrutti. Spesso gli aggressori continuano a mutilare le donne
dopo averle uccise". Chi sopravvive ha scarse speranze
di ricevere aiuto, in un paese in cui le strutture sanitarie
sono poche, sparse e rudimentali. E la consulenza alle vittime
la fanno solo gruppi di volontarie come quello di Justine, "Synergie
des femmes pour les victimes de violences sexuelles". Le
due figlie di Justine hanno subito lo stesso destino, assalite
all'interno della propria casa da una gang armata (ora sono
nascoste ed in attesa di lasciare il paese). La madre e' arrivata
mentre gli stupratori lasciavano il posto, in tempo almeno per
riconoscerne uno: si trattava della guardia del corpo di un
colonnello delle forze di sicurezza. Justine si e' presentata
a quest'ultimo, per chiedere giustizia, ma lui si e' rifiutato
di arrestare il suo sottoposto ed i colleghi di quest'ultimo
hanno commentato con disprezzo che: "Madame Justine non
deve credersi speciale, diversa dagli altri che uccidiamo qui
a Goma". In Congo in questo momento milizie, soldati, polizia
locale, fuggiaschi hutu e combattenti nomadi chiamati ìMai
Maiî combattono ferocemente tra loro, ma hanno sempre
un nemico comune: infatti, nessuno di questi gruppi omette di
violentare quante piu' donne riesce.
*
Ma le donne resistono e lottano ovunque. Le nepalesi badi (un
gruppo di dalit, ovvero "intoccabili"), le principali
sostenitrici economiche delle loro famiglie, sono costrette
dalla discriminazione statale, sociale e comunitaria a fare
un unico lavoro, le prostitute. Hanno cominciato ad essere molto
visibili il 22 agosto scorso, sebbene ce ne fossero solo tre
dozzine in piazza a Kathmandu a chiedere il diritto di possedere
la terra, la candidatura di una donna per ogni uomo candidato
all'assemblea costituente, la presenza di proprie rappresentanze
legali ad ogni livello in cui il governo si occupa di discriminazione
razziale, e il diritto alla cittadinanza per i loro figli, di
cui essi sono ora privi. La piccola manifestazione e' stata
dispersa a forza di botte, e le donne incarcerate, ma cinque
giorni dopo le dimostranti nello stesso luogo erano 450. Stanno
continuando a chiedere che i loro diritti umani vengano riconosciuti,
anche in questi giorni, ed hanno ribadito che: "Le violazioni
dei diritti umani delle donne badi sono un'umiliazione per tutte
le donne nepalesi".
*
Allo stesso modo stanno resistendo le donne dello Zimbabwe,
le coraggiose donne di Woza (Women of Zimbabwe Arise). Le loro
manifestazioni e proteste sono rigorosamente nonviolente. L'inflazione
nel loro paese e' del 6.000% (avete letto bene: seimila per
cento). Da mesi non sono in grado neppure di comprare il pane,
e la mancanza di cibo sta peggiorando il tasso di mortalita'
relativo all'Hiv/Aids. Le donne di Woza vogliono elezioni libere,
diritti umani, fine delle brutalita' poliziesche. Il 40% di
esse ha subito violenze e pestaggi sia durante le dimostrazioni
sia in carcere, ma non mollano. Prendete le loro leader: Jenni
Williams e' ormai stata imprigionata 29 volte, Magodonga Mahlangu
20 volte; Mary Ndlovu, il cui marito e' stato incarcerato senza
accuse e senza processo negli anni '80, ed e' morto poco dopo
il rilascio, si spiega cosi': "Mi sono unita a Woza perche'
e' un movimento di donne che stanno insieme, sono coraggiose
insieme, ridefiniscono insieme il potere. Per troppi anni abbiamo
sofferto in silenzio. In tutta la nazione ci sono donne che
ci sostengono, e quando non sono fisicamente presenti e' solo
a causa di questioni logistiche".
*
Fanno paura, queste difensore dei diritti umani? Moltissimo.
Bisogna metterle a tacere in ogni modo, e quando sono troppo
famose e rispettate per risolvere la questione a bastonate e
galera, le si imbavaglia a livello di media. E' il caso di Ghada
Jamsheer, attivista per i diritti delle donne nel Bahrain, che
ha ottenuto questo onore direttamente dalla corte reale del
paese: e' fatto divieto a radio, televisione e giornali nazionali
di riportare le sue parole o di nominarla. E' vero che, in tutta
la regione del Golfo, Ghada viene considerata un modello e uno
stimolo per le organizzazioni di donne e per quelle che si occupano
di diritti umani; e' vero anche che assieme a Benazir Bhutto
e Shirin Ebadi ha contribuito a formare il "Forum delle
donne musulmane per i diritti umani", che si e' riunito
in plenaria per la prima volta ad Oslo nel maggio 2007, ma ultimamente
ha proprio esagerato: ha scritto a sua maesta' lo sceicco Hamad
bin Isa Al Khalifa chiedendo che il Consiglio supremo per le
donne, presieduto dalla di lui moglie, venga riformato, includendovi
le associazioni indipendenti di donne, giacche' ha sistematicamente
fallito tutti gli obiettivi per i quali era stato creato. Davvero,
certa gente non ha proprio pudore: vogliono persino che gli
uffici del loro governo funzionino.
*
Il governo statunitense, per esempio, funziona male non solo
a livello di liberta' civili, cura dei propri cittadini, e aggressioni
internazionali: la Commissione inter-americana per i diritti
umani lo ha dichiarato colpevole il 5 ottobre scorso, in una
causa intentata da Jessica Lenahan, una donna del Colorado.
La Commissione ha stabilito che il governo Usa e' obbligato
a fornire protezione alle vittime di violenza domestica secondo
i termini dei trattati internazionali. Jessica aveva chiesto
inutilmente e disperatamente tale protezione: non avendola ricevuta,
il suo ex marito e' riuscito ad
ammazzarle tutte e tre le figlie.
*
Per migliorare, si potrebbe prendere ad esempio... l'Afghanistan.
La provincia di Bamiyan, intendo. La governatrice e' una donna,
e le elettrici sono il 52% dell'elettorato totale. Hanno poco
e niente, come il resto del paese, ma quel che hanno e' messo
a frutto per i cittadini e le cittadine, cosi' la provincia
ha generatori elettrici condivisi, abbastanza cibo per tutti,
nessun talebano in giro e neppure mezzo burqa. Fu l'ultima provincia
a cadere durante la guerra che porto' al potere i talebani (nel
2001, pochi mesi prima dell'invasione americana), resistendo
cinque anni oltre la resa di Kabul. E se volete parlare di come
vanno le cose con il piu' prominente dei religiosi locali, per
esempio per quanto riguarda il benessere della provincia, egli
vi presentera' alla sua collaboratrice Latifah Naseri, economista
dal sorriso timido ma dal volto scoperto. Tutti e due hanno
dichiarato ai visitatori della stampa straniera di essere piuttosto
a disagio quando devono recarsi a Kabul.
*
Uno studio interessante, a proposito, e' stato reso pubblico
il 15 ottobre 2007: riguarda le possibilita' di "rompere
il soffitto di vetro" da parte delle donne nei paesi in
via di sviluppo. Lo ha redatto una ditta privata, la PricewaterhouseCoopers,
per conto del Forum delle Donne che si e' tenuto a Deuville,
in Francia, lo scorso fine settimana. L'indagine ha toccato
otto paesi fra cui la Cina, l'India e la Germania, ed ha scoperto
sorprendentemente che: "... nei paesi industrializzati,
gli stereotipi culturali e le percezioni discriminatorie possono
rappresentare barriere maggiori per la piena partecipazione
delle donne rispetto a moltissimi paesi in via di sviluppo".
Il responsabile della ricerca, Samuel Di Piazza, dice: "Le
norme culturali dei paesi 'sviluppati' sono piu' profonde e
durature, specialmente quelle che riguardano l'economia. In
alcuni paesi, come la Germania o la Svizzera, le donne possono
dover affrontare piu' ostacoli rispetto ad aree in via di sviluppo,
ove vi e' un'enorme richiesta di persone che abbiano talento,
e dove tale richiesta induce a riaggiustare le
norme culturali che sarebbero di impedimento alle donne".
*
Solo questione di buon senso, quindi. Lo stesso che ha permesso
per la prima volta, nella citta' turca di Anatolia, alle ragazze
musulmane di battere i tamburi all'alba insieme con i ragazzi,
durante il Ramadan. Le battitrici di tamburo hanno segnalato
ogni giorno l'ora dell'ultimo pasto prima del digiuno rituale.
Che possano continuare a battere i tamburi ogni volta in cui
qualcuno dira' loro che, come femmine, valgono meno degli uomini,
o non possono far questo o quello.
*
Fonti: Al Arabiya; Christian Science Monitor; Gulf News; International
Herald Tribune; Reuters; The Guardian; The Toronto Star; We
News; WomenHuman Rights Defenders; Worec Nepal.
UMANITA'.
GIOVANNA PROVIDENTI: IL DESTINO DI PEGAH
Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org)
riprendiamo il seguente articolo.
Giovanna
Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's
and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista,
si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con
particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli.
Partecipa al Circolo Bateson di Roma.
Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume
Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco
Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne,
"Quaderni satyagraha" - Libreria Editrice Fiorentina,
Pisa-Firenze 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e
in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza
in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45,
dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi.
Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura
di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie
delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come
progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita'
di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche
racconti; sta preparando un libro dal titolo Donne per, sulle
figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori, e un
libro su Goliarda Sapienza. Pegah Emambakhsh, donna lesbica
iraniana di 40 anni, rifugiata in Europa, rischia di tornare
in Iran e di essere lapidata per la sua omosessualita' se il
governo britannico confermera' la sua espulsione e il rimpatrio
forzato]
Non
si sa se la compagna di Pegah Emambakhsh, detenuta in Iran e
condannata a morte, sia gia' stata lapidata o no. I media e
le associazioni per i diritti umani hanno rivolto l'attenzione
piu' su Pegah, rinchiusa dal 25 agosto all'11 settembre come
immigrata illegale nel centro di detenzione di Yarl's Wood,
dove stazionano gli stranieri in attesa di essere deportati
al loro paese d'origine: un luogo che speriamo non assomigli
troppo ai campi per immigrati del film "I figli degli uomini",
ambientato proprio in Gran Bretagna, in cui gli stranieri illegali,
prima di essere espulsi, erano fermati e relegati in un inquietante
ghetto.
L'Inmigration Court decidera' se concedere o meno lo status
di rifugiata a Pegah, tenuta prigioniera 19 giorni del democratico
stato britannico per non
avere dimostrato in maniera inconfutabile la propria condizione
di omosessuale, nonostante al rientro in Iran sarebbe torturata
e lapidata.
Come se davvero la cosa piu' importante da dire su Pegah sia
il suo orientamento sessuale e non il fatto che siano stati
violati i suoi diritti umani. E ripetutamente: nel suo paese
che presume lecita l'intromissione dello Stato nel privato e
che prevede la tortura, la lapidazione e la pena di morte per
gli omosessuali; nel paese in cui chiede rifugio che non solo
si intromette ma viola il suo privato andando a indagare e verificare
il suo modo di amare; dai giornalisti d'assalto curiosi di sapere
ancora di piu' sulla sua storia; dalle leggi che permettono
tutto questo; dalla logica delle esclusioni, identica nel mondo
islamico come dovunque: solo se scegli di essere etichettato
puoi accedere a un diritto, solo se davvero perseguitabile puoi
essere considerata perseguitata, solo se accetti una qualsiasi
di questa gabbie potrai, forse, un giorno essere libera. E se
Pegah non avesse voluto dirlo di essere omosessuale? O se nel
frattempo volesse cambiare idea? Se il motivo per cui era scappata
da una legge oppressiva era perche' avrebbe voluto provare a
deciderla lei la forma della sua liberta', o della sua gabbia?
Credeva che almeno questo fosse possibile nell'universo e nel
tempo (piu' di 50 anni) in cui e' stata sottoscritta la Dichiarazione
universale dei diritti umani e le varie convenzioni ad essa
connesse.
Ma chi e' e cosa dice Pegah Emambakhsh per cui la societa' civile
italiana si e' mossa al punto tale (appelli e petizioni promossi
dal gruppo EveryOne, articoli comparsi su stampa e internet)
da far dichiarare alla ministra Barbara Pollastrini e al sindaco
di Venezia Cacciari che se verra' deportata dall'Inghilterra
potra' trovare rifugio qui da noi in Italia?
Della storia di questa donna, che ha dichiarato di preferire
morire piuttosto che essere costretta a rimpatriare, si sa molto
poco: oggi ha quaranta anni, e' arrivata in Europa nel 2005,
sfuggendo all'arresto. Anni prima le erano stati tolti i due
figli, e negato ogni diritto di vederli, vigendo in Iran la
legge del patriarcato (qualsiasi essa sia) che punisce la madre
"immorale". Cose che da questa parte del mondo succedevano
esattamente allo stesso modo fino a meno di un secolo fa.
Non ci vuole molto a immaginare perche' la prospettiva di morire
non sia apparsa tra le peggiori a Pegah. Eppure nelle poche
affermazioni che e' riuscita a fare dal momento del suo arresto
piu' che disperazione trapela la capacita' di guardare a quel
che di buono la vita le sta offrendo, pur nello sbigottimento
di avere trovato altro da quello che si aspettava. Il 3 settembre
dichiarava al quotidiano "La Stampa": "Mi era
stato detto che il Regno Unito e' uno Stato molto accogliente
con i profughi, molto attento ai diritti della persona. Se devo
essere sincera, quando sono arrivata qui, ero convinta di essere
finalmente al sicuro. Avevo perduto tutto, ma non rischiavo
piu' la vita. Invece e' andata diversamente".
Lei si aspettava liberta' ed invece si ritrova reclusa, ma anche
colpita da inaspettati gesti d'amore, che devono averle fatto
cambiare prospettiva se cosi' scrive nell'ultimo comunicato
trasmesso dal centro di detenzione l'8 settembre 2007: "Non
posso nascondere che ho ancora paura e che il distacco dai miei
amati figli mi da' un dolore che a volte sembra insopportabile.
Non immaginate neanche quanto mi sia di conforto sapere che
ci siete voi. Non mi conoscete neanche eppure vi impegnate per
me, vi esponete per me, lottate per me, mi scrivete e mi mandate
fiori meravigliosi... Non immaginavo che esistessero gruppi
ed esseri umani come voi. Spero che il futuro mi conceda di
conoscere una per una le persone che mi hanno dimostrato tanta
amicizia.
Sono rasserenata, sono felice di tutta questa protezione, di
tutto questo amore che mi infonde energia e volonta' di continuare
a vivere".
In attesa di sapere cosa ne sara' di Pegah resta un dubbio:
quante persone, nel civilissimo mondo dei diritti umani, vengono
deportate a sicure condanne o torture nei propri paesi di origine
solo perche' - qualsiasi sia il loro reato, condizione, scelta,
gabbia, fede, o la loro speranza - non riescono a fornire garanzie
sufficienti per essere ritenuti degne di diritto d'asilo?
RIFLESSIONE.
AZAR MAJEDI: CONTRO TUTTI I TERRORISMI
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it)
per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente
intervento.
Azar
Majedi fa parte dell'associazione Wluml - Donne che vivono sotto
le leggi islamiche; il suo sito e' www.azarmajedi.com
Un
paio di settimane fa mia figlia mi ha raccontato che una sua
amica, lesbica e socialista, ha un poster in camera sua con
su scritto: "Siamo tutti Hezb'Allah ora!". "Mio
dio!", le ho risposto (e sono atea), "Qualcosa deve
essere andato terribilmente male".
E mi sono chiesta: cosa stanno tentando di fare, prendere i
socialisti per i fondelli? O sono semplicemente obnubilati?
Questa giovane donna ha tutti gli ingredienti necessari per
lottare contro l'islamismo politico e Hezb'Allah.
In primo luogo e' una donna. Solo il fatto di essere femmina
e' abbastanza per renderti fiera oppositrice di un movimento
radicalmente misogino, a meno che non ti abbiano fatto il lavaggio
del cervello in senso opposto. Per aggiungere ironia all'ironia,
si tratta di una lesbica. L'omosessualita' e' un crimine punibile
con la morte per i paesi governati dall'islamismo politico.
Essere omosessuale ti fa desiderare di fuggire da ogni luogo
in cui gli islamisti abbiano il potere. Dozzine di omosessuali
sono stati impiccati, in mesi recenti, dalla Repubblica Islamica
dell'Iran. Questa ragazza, se fosse nata in Iran o in una regione
sotto il dominio di Hezb'Allah, avrebbe magari dovuto cercar
rifugio in Gran Bretagna. Ma in Gran Bretagna ci e' nata, ed
e' abbastanza fortunata da non dover temere per la propria vita
come la povera Pegah, che ora il governo vorrebbe deportare
in Iran. E' conscia, questa socialista lesbica sostenitrice
di Hezb'Allah, che il suo sostegno dell'islamismo politico rende
le situazioni come quella di Pegah ancora piu' difficili? L'ufficio
per l'immigrazione britannico sta cercando legittimazione per
le deportazioni proprio da parte di tale propaganda "islamista-quasi-di-sinistra".
E, infine, lei dichiara di essere socialista. Dovunque uno si
collochi sullo spettro politico, e' un fatto noto e generalmente
accettato che il socialismo concerne l'equita', la giustizia,
le aspirazioni ad un mondo piu' egualitario e ad una societa'
migliore. Se qualcuno sceglie il socialismo cio' dovrebbe significare
che si cura dei suoi compagni e compagne esseri umani, che aspira
all'uguaglianza ed alla liberta', e a tutti quei valori che
il movimento islamista disprezza. Molte migliaia di socialisti
sono stati imprigionati, torturati e giustiziati solo in Iran.
Percio', cos'e' che non ha funzionato? Perche' questa giovane
e' cosi' appassionata di Hezb'Allah? Responsabile di questa
situazione e' una falsificazione ideologica degli eventi. Il
pragmatismo ha anche aiutato il corso degli eventi, e cominciamo
pure da quest'ultimo. Questa giovane donna, probabilmente molto
sensibile, e' giustamente indignata e stanca delle aggressioni
statunitensi e britanniche e dei crimini commessi in Iraq e
nel Medio Oriente. E' nauseata dalle ingiustizie imposte al
popolo palestinese. Condanna, e fa bene, gli Usa e la Gran Bretagna
per tutti questi crimini ed atrocita', e per il sostegno incondizionato
al ggoverno di Israele durante la guerra in Libano dell'anno
scorso. E' nel giusto, facendo questo.
Tuttavia, dall'altro lato, da quando George Bush ha definito
l'islamismo un nemico, lei automaticamente da' pieno sostegno
agli islamisti.
Le aggressioni e le azioni militari, statunitensi e britanniche,
contro i popoli del Medio Oriente hanno contribuito a disegnare
un'immagine sbagliata dell'islamismo politico. Il movimento
islamista e la sua ideologia sono stati presentati falsamente
come i liberatori dei popoli del Medio Oriente e dei palestinesi.
Lo ripeto, questo e' falso. Gli islamisti politici sono uno
dei movimenti piu' brutali comparsi nella storia dell'umanita'.
Non sono liberatori. Sono una forza reazionaria, e questo messaggio
deve essere diffuso.
Gli islamisti non sono i portavoce dei palestinesi o del popolo
iracheno.
Non stanno rappresentando il dolore e la pena che queste genti
soffrono a causa della guerra. Non sono rappresentanti del popolo,
e la loro brutalita' e' senza misericordia. Questo dobbiamo
chiarirlo: tra i due poli terroristici degli Usa e degli islamisti,
noi non sosteniamo nessuno dei due. Li condanniamo entrambi.
RIFLESSIONE.
DANIELA BEZZI INTERVISTA ARUNDHATI ROY
Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 ottobre 2007 col
titolo "Quella nuova trama di parole resistenti. Un'intervista
con la scrittrice Arundhati Roy".
Daniela
Bezzi, milanese, vive a Roma, giornalista free lance cosmopolita
ha vissuto in Giappone, a Londra e in India da dove ha scritto
per numerose testate italiane fra le quali "Grazia",
"L'Espresso", "La Repubblica", e numerosi
mensili di viaggio.
Arundhati Roy, scrittrice indiana, impegnata contro il riarmo,
in difesa dell'ambiente e per i diritti delle persone e dei
popoli. Opere di Arundhati Roy: il romanzo Il Dio delle piccole
cose, Guanda, Parma 1997, Superpocket, Milano 2000; i saggi
di testimonianza e denuncia raccolti ne La fine delle
illusioni, Guanda, Parma 1999, Tea, Milano 2001, poi recuperati
nella piu' ampia raccolta di saggi di intervento civile, Guerra
e' pace, Guanda, Parma 2002; Guida all'impero per la gente comune,
Guanda, Parma 2003; Ahisma [sic, refuso tipografico per Ahimsa].
Scritti su impero e guerra, Datanews, Roma 2003; cfr. inoltre
L'impero e il vuoto. Conversazioni con David Barsamian, Guanda,
Parma 2004]
Arundhati
Roy e' una scrittrice che non ha bisogno di molte presentazioni.
Autrice di successo con Il dio delle piccole cose (Guanda),
ha continuato a narrare l'India da una prospettiva molto diversa
dalla letteratura. Ha scritto contro il fondamentalismo indu',
la guerra in Afghanistan, in Iraq, gli "interventi di aggiustamento
strutturale" del Fondo monetario internazionale in testi
- Guida all'impero per la gente comune, L'impero e il vuoto,
Guerra e' pace, tutti pubblicati da Guanda - che costituiscono
una sorta di storia di questi ultimo decennio dal punto di vista
dei movimenti sociali. La scrittrice e' in Italia per partecipare
ai tre giorni di incontri con giornalisti e scrittori che la
rivista "Internazionale" ha organizzato per il Comune
di Ferrara.
*
- Daniela Bezzi: Nei dieci anni dall'uscita del primo romanzo,
Il dio delle piccole cose, hai scritto moltissimo, ma piu' come
giornalista che come scrittrice...
- Arundhati Roy: Non mi considero una giornalista. Il lavoro
del giornalista e' coprire ogni giorno un certo numero di notizie.
O al massimo indagare su determinati aspetti della realta',
quasi sempre gia' in parte noti. Credo che il mio lavoro possa
definirsi narrativo anche quando metto la scrittura al servizio
di un'inchiesta, nel senso che cerco di dare un filo (che per
me e' ricerca di senso, anche politico) a vicende e storie magari
"note", che pero' sono cosi' secondarie che non fanno
"storia". Il mio e' un lavoro di ricucitura. Rimessa
a fuoco. Quadratura. Per restituire spessore a quel background
di umori e corpi che il giornalismo non puo' rendere. Perche'
c'e' sempre meno tempo, perche' interessano altre notizie, perche'
giornali e media cosiddetti mainstream devono vendere (e vendere
sempre piu' pubblicita', non piu' solo notizie). Perche' anche
i media hanno una loro politica, al servizio di precisi interessi.
*
- Daniela Bezzi: A coloro che in questi dieci anni ti chiedevano
"quando scriverai il prossimo libro?" hai sempre risposto
"Quando ne sentiro' il bisogno". E tuttavia anche
i tuoi saggi sono libri importanti per te...
- Arundhati Roy: Posso solo dire che ogni volta che mi sono
posta il dilemma tra fiction e non fiction, ho sempre scelto
per la seconda possibilita', perche' la fiction e' totalizzante
e assorbente: c'e' un momento in cui ti senti preso dentro e
non c'e' modo di uscirne. Oltre al fatto che nel frattempo mi
sono trovata completamente assorbita e sempre piu' dentro quella
terrificante "narrazione" che e' stata l'India di
questi ultimi dieci anni. Che cosa e' successo in questi anni
e' abbastanza chiaro. Nel mio paese lo chiamiamo il "Grande
furto". Nel frattempo, l'India si e' affermata come nuova
potenza economica, e a qualunque costo continuera' su questa
strada. In che modo e' possibile non dico opporsi, "resistere",
ma anche solo "convivere" con quanto potra' ancora
succedere in futuro e' meno chiaro. E per dare forma a questo
smarrimento, a questa perdita, e' necessario un tipo di scrittura
completamente diverso. Diverso non nel senso di piu' o meno
politico o piu' o meno narrativo. Diverso nel senso che tutti
questi fatti e fili e note a pie' di pagina che per dieci anni
hanno nutrito la mia scrittura, devono trovare un nuovo modo
di farsi trama.
*
- Daniela Bezzi: Come sta andando questo tuo lavoro di rielaborazione?
- Arundhati Roy: A rilento. In parte per ragioni molto private.
In parte perche' l'urgenza di intervenire su casi che mi stanno
a cuore fa ormai parte di me, del mio modo di essere. Per esempio,
e' appena uscito sul settimanale "Outlook" un lungo
articolo su un caso di abuso giudiziario per "disprezzo
della Corte". Un "reato" che ha colpito anche
me nel 2001 per aver osato criticare la Corte Suprema dell'India
per collusione con determinati interessi economici in merito
alla decisione di riprendere i lavori sulla diga Sardar Sarovar
e contro una precedente ordinanza, che, se osservata, avrebbe
salvato quanto allora rimaneva del fiume Narmada. Nel mio caso
tutto fini' con una ridicola sentenza (un giorno di prigione!)
e un gran rumore sulla stampa solo perche' ero un volto noto.
La vicenda al centro di questo mio ultimo scritto mette a fuoco
l'usuale arroganza con cui il potere giudiziario in India puo'
colpire qualsiasi piccolo-grande dissenso da parte di qualsiasi
piccolo-eroico individuo o organo di informazione (in questo
caso il quotidiano "Mid Day" di Delhi), ritenuto "colpevole"
di aver osato denunciare interessi e collusioni del potere politico
o giudiziario con il potere economico. Immagina la brutalita'
con cui una simile arroganza istituzionale puo' venire interpretata
nelle piu' remote regioni dell'India contro chiunque tenti di
opporsi agli "aggiustamenti strutturali" (questa e'
l'espressione usata per descrivere il sistematico smantellamento
di quel minimo sistema di diritti di cui abbiamo goduto in India
fino ai primi anni Novanta). Spostare fiumi e montagne, moltiplicare
dighe o cancellare intere comunita', culture, economie agricole
in nome dello sviluppo industriale, dello sfruttamento minerario,
della vertiginosa crescita non e' un problema, anche quando
tutto questo crea ulteriore poverta' e scontro sociale. Le nostre
prigioni sono sempre piu' affollate, i diritti umani sempre
piu' calpestati, ma guai a dire male dei signori della Corte.
*
- Daniela Bezzi: Hai accennato al movimento di resistenza di
Narmada: un'adesione che ti rese forse ancora piu' famosa che
come scrittrice. Al tempo stesso diede visibilita' a questa
resistenza che da anni si opponeva al colossale progetto di
costruire dighe su quei mille chilometri di fiume. Cosa ti resta
di quell'esperienza?
- Arundhati Roy: C'e' stato un momento in cui mi sono sentita
come dentro una bolla e ho capito che dovevo uscire. Ancora
una volta e' un problema di autenticita'. Nelle cose che fai
come nelle parole che scrivi. Quando senti che l'autenticita'
non e' piu' la stessa, devi cambiare. La cosa che purtroppo
falsa tutto e' il denaro. A rendermi famosa oltre al libro c'era
la somma di denaro incassata come anticipo. E poi quella che
vinsi con il Booker Prize. E anche dopo, per anni, quanti premi
in denaro mi sono stati attribuiti. Tutto cio' ha complicato
non poco il mio modo di sentirmi parte del Narmada Movement
o di tante altre cause (ugualmente importanti per me). Il denaro
puo' tante cose, ma soprattutto confonde e corrompe.
*
- Daniela Bezzi: Nel tuo caso e' pero' servito a dare voce a
piccole organizzazioni attive in India sui piu' diversi fronti.
E' stato cioe', spesso silenziosamente, condiviso...
- Arundhati Roy: Certo, ma il fatto che io o altri siamo in
grado di esprimere materialmente la nostra solidarieta' non
serve a nulla. Non ha alcun effetto sulle cause dell'ingiustizia.
Nel migliore dei casi e' un palliativo. Quasi sempre crea disunita'.
Soprattutto nelle situazione di bisogno, il denaro puo' comprare
qualsiasi cosa e quanto piu' ce n'e' in circolazione, tanto
piu' corrompe. E questo e' uno degli aspetti piu' inquietanti
del mio paese in questo momento. L'India e' letteralmente invasa
dalle Ong, di tutti i tipi, orientamenti, colori. Foraggiate
da chiunque, in grado di foraggiare chiunque. Guarda il caso
della Vedanta, che dal niente imprenditoriale di un oscuro raccoglitore
di metalli di Mumbai e' ora tra i migliori cavalli in corsa
sul mercato azionario di Londra. Fortuna? Capacita' gestionale?
O il fatto che nel Consiglio di amministrazione figurasse agli
inizi (oltre ad un ex ambasciatore inglese in India e a vari
altri influenti "dignitari") l'attuale Ministro delle
Finanze indiano, Chidambaram? Vedanta oggi finanzia molte organizzazioni
non governative.
Tutta la nuova shining India brilla in questo stesso indecente
modo. Allo stesso tempo, un terzo del territorio indiano e'
off limits: nel senso che la forza pubblica non e' piu' in grado
di esserci fisicamente, perche' il livello di militarizzazione
(vuoi naxalita, o salwa judum, o altre simili fazioni a vario
titolo foraggiate da questo o quel potere, industria, amministrazione
locale) e' tale che ci si fa "giustizia" da soli.
Per tornare a cio' che dicevamo: la fiction e' solo un altro
modo di rappresentare cio' che succede intorno a noi. Il rumore
puo' a volte essere molto forte. E disorientare. Chiudere le
finestre e' impossibile e riprendere il filo sara' ogni volta
faticoso. Ogni tanto puoi sentirti assalita dalla tentazione
di ritirarti e tacere. Ma poi passa.
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