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X

Per essere meglio informati sugli eventi che si sarebbero succeduti, i coniugi Giglioli pianificarono alcuni incontri con famiglie di ragazzi nati con il labbro e il palato aperto. La prima visita fu programmata nell’entusiasmo, finalmente si sarebbero resi conto di come la scienza e la perizia dell’uomo avrebbero trasformato ciò che una natura stravagante non aveva voluto compiere. La sera dell’appuntamento entrarono in un nuovo palazzo di periferia e, premuto il campanello con il nominativo segnalato da amici, Denise ebbe la bella sorpresa di incontrare qualcuno che già conosceva. La signora che aperse la porta, era stata una sua compagna di oratorio. Si rasserenò ponendo un argine all’ansia e l’approccio avvenne con sincera gioia di incontrarsi. Il colloquio fu subito incanalato su ciò che costituiva il motivo della visita. Affamati di notizie Bruno e Denise ascoltarono gli ospiti descrivere la loro esperienza passo dopo passo. In un angolo della sala, la loro bambina giocava con una bambola ignorando i presenti.
Ad un tratto la madre disse con un sorriso accattivante:
Ecco il nostro mostriciattolo. Vero Silvia che sei il nostro mostriciattolo?”.
La piccola annuì senza alzare il capo. Sua mamma la sollecitò a rispondere ad alcune domande per dimostrare che aveva una buona fonetica. La bimba parlò a spizzichi, alzando ogni tanto gli occhi, senza mai volgere lo sguardo agli adulti. Denise e Bruno non compresero una sola parola, ma videro tutto ciò che dovevano vedere.
La serenità dei padroni di casa non riuscì a frenare la loro voglia di scappar via: non si aspettavano di trovare ancora tanti guasti sul volto della bambina più volte operata. I visitatori fecero buon viso a cattivo gioco e se ne andarono con un senso di compassione egualmente distribuito tra la famiglia appena visitata e la loro.
Al ritorno, Denise, analizzò gli eventi della serata. Non era preparata alla vista di un visino dove il chirurgo aveva ricucito la fessura del labbro provocando asimmetrie appariscenti e sgradevoli, e neppure ad una parlata così poco comprensibile. Probabilmente, pensava, il caso di Bibien è diverso perché il dottor Rigoni ci ha assicurato che lo sistemerà perfettamente. Forse anche per quella bambina arriverà il momento in cui sarà completamente a posto. Una conoscente le aveva detto: ” hai mai visto un adulto col labbro leporino? No! Perché oggi la chirurgia plastica fa miracoli.” Quindi Denise doveva fidarsi, era solo questione di tempo. Non si perdonava però di aver messo a disagio quell’innocente e non giustificava l’espressione della mamma: ecco il nostro mostriciattolo! Possibile che avesse trovato un escamotage del genere per alleggerire il problema psicologico? Lei avrebbe chiamato mostriciattolo vezzeggiando qualcuno di carino, ma non chi mostriciattolo lo è veramente. Certe cose non hanno alcuna logica o almeno una logica comprensibile, pensava torturandosi. Ciò che a lei pareva privo di senso, per l’altra doveva essere il prodotto di un vissuto materno.
Durante tutto il tempo della visita, la ragazzina era rimasta seduta in disparte col capo abbassato e rivolto in direzione opposta. Era chiaro che si sentiva umiliata. Aveva solamente sette anni, ma capiva benissimo di essere stata oggetto di curiosità.
A Denise segnalarono in seguito il caso di un altro ragazzo di sei anni, nato con il problema di Bibien, così si mise in contatto con la famiglia. S’incontrò con la madre. La donna appena conosciuta parlò a lungo, descrivendo i travagli del bambino. Poi portò Denise nella cameretta dove suo figlio stava giocando e gli chiese: “Tutto bene Loris? E’ venuta a trovarmi un’amica, prendiamo un te insieme” e richiuse la porta. Denise costatò una devastazione chirurgica sul viso del ragazzo. Era stato operato alcune volte proprio dal dottor Rigoni, quello nelle cui mani era passata anche Silvia, quello nel quale lei aveva riposto fiducia e ammirazione: “Faccio io, sono stato in America…” ma quel risultato strideva con le capacità che aveva ostentato.. La mamma di Loris raccomandò di non affidare Bibien a quel chirurgo. Il suo bambino aveva subito inutili tribolazione in conseguenza di errori che avevano richiesto molti ritocchi. L’evidenza, che smentiva ogni profezia, lasciò in lei il sapore aspro della disillusione.
“Lo porti a Milano” pregò la madre, “ là c’è un altro ambiente, più sereno, si può anche stare tutto il giorno accanto al bambino e fanno le cose bene”.
Denise non ebbe più dubbi e convinse il marito a puntare su Milano.

 

XI

Con il loro fagottino in un’elegante cesta per neonati, i coniugi Giglioli si recarono nel capoluogo lombardo per incontrare il chirurgo che era stato loro segnalato. Al momento dell’incontro, questi, degnò Bibien di uno sguardo trascurato poi si rivolse ai genitori e diede loro il più saggio dei consigli.
“E’ un bambino normale, trattatelo come tale, vi raccomando. Sarà solo più brutto degli altri, ma c’è in giro tanta gente brutta che pure è nata normale”.
Poi fissò la data del primo intervento.
Il giorno del ricovero, la famigliola arrivò di buon ora al nosocomio di Milano, si fermò in astanteria per i preliminari, poi, fu indirizzata al reparto di pertinenza. Le piccolissime camere della chirurgia pediatrica avevano tutte, sul lato prospiciente il corridoio, finestre con vetro trasparente e lo scenario che si apriva al visitatore si opponeva ad ogni possibile serenità. Molti neonati avevano cannule che fuoriuscivano dal cranio o altri meccanismi all’apparenza sinistri, ma i più penosi erano quelli che portavano una strana protesi sul naso, simile al becco di una civetta. Erano quelli operati per schisi del labbro.
Quando assegnarono il posto a Bibien, Denise si ritrovò in una stanzetta con quattro lettini, quattro sgabelli fra un letto e l’altro, un fasciatoio, un lavabo e lo spazio indispensabile per il passaggio. Altre mamme stavano come lei in piedi vicino al proprio figlio, ammutolite e disorientate. Si guardavano senza alcuna voglia di parlare, in attesa degli eventi. Bruno aspettava fuori dal reparto con la sigaretta perennemente in bocca. Verso mezzogiorno un’infermiera entrò con autorità in ogni cameretta per avvertire che tutti i parenti erano invitati all’incontro con lo psicologo. Denise corse ad avvisare il marito e intimamente si rallegrò per l’iniziativa. In quella pediatria avevano capito l’utilità di un aiuto morale ai genitori.
La saletta della riunione era zeppa di persone arrivate quello stesso giorno e la tensione frusciava sulla pelle. Lo psicologo parlò.
“In camera con il bambino deve rimanere un solo genitore, l’altro può eventualmente fermarsi fuori dal reparto sulle scale; non si può assolutamente stare nei corridoi; ognuno è obbligato a rimanere nella propria cameretta; bisogna…….; non bisogna….. si deve…. non si deve….”
L’elenco delle proibizioni e degli ordini fu lungo. Al termine, gli astanti uscirono a capo basso, umiliati. Erano stati trattati come ragazzi in collegio, senza alcuna attenzione alle loro preoccupazioni ed emozioni.
Che nelle camere con il bambino dovesse sostare una sola persona, era evidente anche senza l’avviso: non si poteva neppure sgranchirsi le gambe tanto piccole erano le stanzette, per muoversi bisognava stringere la pancia.
Le scale dell’ospedale, erano il luogo di socializzazione fra parenti; tutti seduti sui gradini, potevano conversare in libertà, fumare la sigaretta e rilassarsi un poco. Quando le mamme si ritrovavano, c’era sempre uno scambio di esperienze e il “mal comune” apportava un certo conforto. Si confrontavano anche su come ognuna di loro reagisse di fronte alla curiosità del prossimo e sui comportamenti da tenere per il futuro. C’era chi non aveva creduto opportuno mostrare il proprio figlio e lo aveva sempre tenuto in casa, vivendo questo dramma come una penitenza necessaria, una colpa da nascondere, un avvenimento da riporre in un celatissimo angolo. C’era chi invece sosteneva che mai si sarebbe vergognato del proprio bambino e che si sarebbero dovuti vergognare quelli che li facevano oggetto di sguardi curiosi.
Denise faceva tesoro di ogni parola ed osservava attentamente le altre mamme e i lori figlioli. Il piccolo che a nove mesi non era mai stato portato fuori, aveva un malinconico pallore, era limitato nei movimenti, lo sguardo spento, gli occhi di cucciolo sconsolato; mentre gli altri, più vivaci e coloriti, esprimevano quel tocco di vita proprio dei neonati.

 

XII

Nella sala d’aspetto del dottor Giannò non si trovava mai una sedia libera. Era sempre zeppa di ragazzini con i rispettivi genitori, seduti compostamente, in silenziosa attesa del proprio turno. Bibien aveva ormai quindici mesi e per prepararsi alle successive operazioni, doveva portare un apparecchietto ortodontico che l’assistente del chirurgo, il dottor Giannò appunto, forgiava appositamente. Ogni settimana era necessario recarsi a Milano per la sistemazione della protesi. I coniugi Giglioli seguivano in modo scrupoloso ogni programma, desiderosi che tutto riuscisse al meglio, anche se la combinazione primario e vice, poteva sapere un po’ di raggiro. Ma perché non pensare che solo l’assistente del chirurgo faceva un lavoro a regola d’arte a ragione della sua buona conoscenza dei vari casi? Il paziente non capisce mai qual è la linea di demarcazione fra necessità presunta o presunzione dell’esperto, o peggio; non gli resta che fidarsi.
Nell’ambulatorio del Dottor Giannò, Bruno e Denise poterono osservare una vasta casistica di ragazzini nati con la schisi del labbro. Ce n’erano di varie età,: tutti con lo stesso problema, ma con caratteristiche fra loro molto diverse Uno che si avvicinasse alla gradevolezza estetica non si vedeva, neppure fra i più grandicelli più volte operati. Con quei bambini attorno sembrava di essere al circolo dei mostriciattoli. I piccoli pazienti avevano un naso irregolare, il labbro sformato, la mascella rientrante e per completare il quadro, la fonetica alterata. A causa del suono nasale della voce, spesso era difficile comprendere quello che dicevano. Molti di loro, stavano seduti a testa bassa: non volevano essere osservati.
“Per Bibien non sarà per niente così!” rimuginava alterata Denise, incapace di tradurre in consapevolezza ciò che stava sotto i suoi occhi. “in futuro sarà diverso, la chirurgia plastica fa ogni giorno passi da gigante, il mio caso non è come gli altri, mio figlio non sarà mai fra quelli che si dovranno vergognare del proprio aspetto fisico! “
Bibien era ancora troppo piccolo per rendersi conto della sua diversità. Andava manifestando un temperamento allegro ed irruente, capace di catturare l’interesse e la simpatia di chi gli stava vicino; di questo i genitori non potevano che essere fieri. Già dai primi passi non si poteva tenere a bada; sempre in movimento, sprizzava allegria da tutti i pori e con i coetanei era sempre pronto ad invitarli al gioco. Le sagge parole del chirurgo milanese “trattatelo come un bambino normale” erano state vangelo. I suoi genitori s’impegnarono ad inserirlo in qualsiasi ambiente che lo rapportasse agli altri, nonostante gli sguardi incuriositi o il corrugamento della fronte di coloro che l’osservavano per la prima volta. Era penoso notare chi strabuzzava gli occhi o dava una gomitata al vicino accennando a Bibien. Niente sfuggiva a Denise che era sensibile a qualunque sguardo, anche quelli di simulata indifferenza. Lei poteva capire, ma non riusciva ad accettare. Avrebbe dovuto allenarsi per sottostare a quella crudele e faticosa realtà, “smussare” ogni sensazione di attacco che Bibien avrebbe potuto ricevere, per poter vivere e far vivere a lui un quotidiano meno tormentato.

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