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XIII

A due anni e mezzo, Bibien aveva subito due interventi chirurgici e le cicatrici apparivano irrilevanti, ma i suoi genitori decisero di consultarsi con un chirurgo di Zurigo per un parere sui precedenti interventi e sugli sviluppi futuri. L’esperto svizzero spiegò loro che si andava delineando un ulteriore danno che avrebbe maggiormente compromesso l’estetica del viso. I denti incisivi si abbassavano sempre più, già arrivavano quasi a metà mento facendolo somigliare ad un coniglietto. Il piccolo avrebbe mantenuto questa nuova anomalia fino alla crescita dei denti permanenti, epoca di una possibile correzione chirurgica. Inoltre era urgente rifare quanto era stato fatto a Milano.
“Anche noi vent’anni fa operavamo in questo modo” disse il chirurgo svizzero, “ma ora sappiamo che queste malformazioni si evolvono in una certa maniera e bisogna intervenire adeguatamnete. Bisogna operare di nuovo per limitare le conseguenze.”
“Ma l’apparecchietto è utile?” chiese a questo punto Bruno.
“Gli apparecchietti servono solo con i denti permanenti, ora non servono a nulla.”
I coniugi Giglioli, in gita a Zurigo, ritornarono a casa feriti dall’ennesima delusione, ma non si persero d’animo, ogni difficoltà poteva essere superata, la Svizzera non era poi cosi lontana.

Quando i due genitori si trovarono nell’ospedale elvetico con il figlioletto ricoverato, le grosse apprensioni dei giorni precedenti furono in parte mitigate. L’ambiente esterno, ben inserito nell’architettura del quartiere, non dava l’idea di un nosocomio; le camere che ospitavano i bambini, spaziosissime e luminose, avevano finestre grandi quanto tutta la parete; personaggi disneyani dipinti sui vetri coloravano il cielo spesso troppo grigio. All’interno di ogni stanza erano collocati quattro letti, ma in queste camere c’era spazio per ballare e in ognuna c’era un angolo con un tavolino pieno di giochi per l’infanzia e libri illustrati. L’assistenza era assidua e premurosa. Tutto il personale dell’ospedale si comportava affabilmente con i piccoli ospiti e non lesinava cordialità e rispetto ai familiari.
Denise fu costretta a fare paragoni con i precedenti due ricoveri a Milano e rammentare un nodo, fra tanti, nella trama dei suoi ricordi. Un’infermiera, la prima mattina di ingresso in ospedale, con aria da madre badessa, dopo aver posato Bibien sul fasciatolo, gracchiò così:
“Questo bambino ha dello sporco dietro le orecchie!”
Sua madre, sapendo con quanta cura lo aveva lavato, chiese stupefatta e un po’ intimorita:
“Dove?”
“Qui, qui, guardi bene!”
Guardò alla luce della finestra, ma non vide nulla. Si sentì ingiustamente mortificata di fronte alle altre mamme presenti in camera, ma non osò controbattere. Ingoiò il rospo piuttosto che inimicarsi una persona che aveva nelle mani la cura di suo figlio. Non aveva voglia di opporsi: era troppo debole e frastornata. Poi l’infermiera trovò da ridire anche sugli altri e le madri si scambiarono occhiate complici. Qualche giorno dopo quella stessa persona che aveva criticato le mamme per lo stato d’igiene dei rispettivi figli, usò un termometro lavato male per misurare la febbre a Bibien. Denise se ne accorse, ma ancora prima che riuscisse a dire: “ma quel termometro…” l’infermiera l’aveva già infilato. In quel breve lasso di tempo non riuscì a fermarla e tacque. All’indomani, tutti e quattro i bambini della stanza avevano una forte dissenteria.
Mentre pensava a questi fatti, vide oltre il vetro, apposta al muro del bancone, una targa di metallo. Riportava la scritta "PSYCHOLOGIE”. Denise si stupì per quella targa fissata al terrazzo del sesto piano e la fece notare a Bruno. Chiesero spiegazioni a un giovane medico di passaggio, in tedesco e a gesti, questi fece loro capire che gli psicologi dovrebbero essere buttati dal balcone. Risero tutti insieme divertiti.
Era un ospedale pediatrico, tuttavia si respirava un’aria rassicurante. I chirurghi si presentavano ogni mattina prima di entrare in sala operatoria per controllare i loro pazienti, e la sera ritornavano anche per soffermarsi a descrivere ai genitori, con semplicità e chiarezza, il decorso post operatorio. Il primario radunava ogni giorno medici e studenti in zona neutra e li informava a lungo sulla condizione dei degenti, poi tutti insieme si recavano al capezzale dei più gravi per i dettagli del caso. Dai vetri che separavano ogni camera, Denise osservava i movimenti di quei giovanotti in camice bianco senza prosopopea e ancora una volta abbinò il loro modo di fare con altri che aveva riscontrato anni prima durante una sua degenza nell’ospedale della sua Città. Si ricordò di un fatto divertente. Il primario entrò nella camera con i tirocinanti dietro di lui in fila indiana. Si accostò al letto di una ammalata, auscultò la schiena, la picchiettò con i polpastrelli, poi con tono asettico disse: “tossisca”. La donna che oltre ad essere anziana e cardiopatica era anche un po’ sorda, non sentì l’invito a tossire. Il primario ripeté “tossisca!”, inutilmente. Una dottoressa che stava vicino al letto, inclinò la schiena per portarsi all’altezza degli occhi della paziente e fece capire alla donna di tossire, simulando la tosse. Il medico allora abbassò la canottiera all’ammalata dicendo:
“OK, va bene così” e si allontanò.

Un frastuono fece sobbalzare tutti i presenti compresa Denise che abbandonò i ricordi per osservare. Il tetto dell’ospedale faceva da piattaforma ad un piccolo elicottero preposto al pronto soccorso nel comprensorio. Quando il velivolo decollava o atterrava sembrava un momento di festa e tutti erano distratti dai propri pensieri, anche se nella realtà c’era sicuramente implicato un bambino protagonista di un’incresciosa vicenda.

 

XIV

Il tempo della scuola materna filò via con poche difficoltà. Bibien fu accolto bene dalle educatrici. Il piccolo si faceva amare per la sua simpatia, accompagnata da una precoce capacità di comunicazione. Nel corso del terzo anno però le insegnanti lamentarono nel bambino un crescente atteggiamento d’inerzia. I genitori l’interpretarono come una svogliatezza fisiologica e passeggera, invece si trattava di un vero e proprio disagio. Il disinteresse di un ragazzo al programma pedagogico, segnalato dagli educatori, è spesso sottovalutato, i parenti non si accorgono che si tratta di un campanello d’allarme. Forse è l’istinto che protegge dall’impatto con una realtà dura da accettare. Come il coniuge tradito è l’ultimo a scoprire le infedeltà del partner, così un genitore è l’ultimo ad accorgersi delle anomalie psicologiche dei propri figli. Le cose più intime si scoprono casualmente, quando non sono più attuali.
Poco tempo dopo per Denise ci furono le prime chiare avvisaglie. Un pomeriggio, al ritorno dalla scuola per l’infanzia, lungo la strada, Bibien le disse:
“Mamma, cammina piano ti prego!”
“Perché?” rispose.
“Non dobbiamo superare quei bambini!”
Davanti a loro c’erano due ragazzini e un adulto.
“Non capisco perché.” replicò la mamma.
“ Magari ridono di me.” balbettò con tono mesto.
Alla mamma si strinse il cuore.
“Perché dovrebbero deriderti?”
“Non lo so, ma non passare avanti, ti prego!”
Tacque Denise e continuò a camminare stringendogli forte la mano. Non ebbe il coraggio di affrontare con altre parole la questione, ma attese gli eventi.
Era arrivato il momento della verità e da quel giorno capì che il tronco più pesante passava dalle sue spalle a quello del bambino, senza possibilità di trattenerlo. Non poteva bendare gli occhi e tappare la bocca alla persone, non poteva distoglierlo dallo spettacolo dell’umana grettezza, ma non voleva neppure sentirsi impotente. Si interrogava su come muoversi. Sovente si sentiva agguerrita e tenace, altre volte debole e disarmata, ma doveva essere salvaguardata, con ogni possibile intento, la serenità di Bibien. Privare il piccolo della compagnia dei coetanei era improponibile, ma non riusciva ad accettare neppure che fosse umiliato ogni momento, ora che cominciava a crescere, a capire, e conseguentemente a perdere la serenità dell’infanzia. Per parare colpi improvvisi, cercò di metterlo in contatto il meno possibile con ragazzini sconosciuti, come quelli che incontrava al parco giochi, mentre quelli abituati a vederlo, non manifestavano alcuno stupore. L’impatto con compagni occasionali era sempre fonte di frasi imbarazzanti che, anche se pronunciate innocentemente, ferivano Bibien. Con gli adulti era diverso: sono meno spontanei e le loro considerazioni le fanno di nascosto, salvo poche eccezioni come accadde in una festa di carnevale. Una festa in costume è sempre un momento magico per i piccoli e in quella circostanza Denise aveva mascherato Bibien con un abito da arabo con il turbante in testa e una cipria scura in viso. Nel bel mezzo dei giochi, una maccabea, credendo di lusingare il bambino, gli si rivolse declamando con enfasi:
“Che bei dentoni ti sei messo? È? E?, che bei dentoni! Dove li hai presi quei dentoni?”
Non la smetteva più con quelle domande sui dentoni.
“Signora,” Denise la prese in disparte “sono i suoi denti, è nato con una malformazione”.
La comune allegria si trasformò per lei in confusa mestizia.
Nell’hotel marino dove la famiglia Giglioli era solita soggiornare, un pomeriggio, alcuni ragazzi raggruppati nel gioco si misero ad urlare:
“Il dracula, arriva il dracula”.
Denise, ammutolita e sprovvista di soluzioni immediate rimase in disparte e seguì la scena. Bibien smise di camminare normalmente e procedendo a gambe divaricate, con le braccia aperte ripeté più volte a monosillabi e con voce roca:
“Sono il dracula…. sono il dracula…..” come nelle favole, quando l’orco si avvicina alla preda. I monelli scappavano in atteggiamento frammisto a gioco e scherno, ma per Bibien, era solo gioco. Non conosceva ancora il significato di quel termine. L’avrebbe però scoperto presto perché fu l’etichetta dispregiativa più comune che da quel momento in poi i ragazzi gli avrebbero affibbiato.

 

XV

Tutti gli interessi di Denise erano polarizzati sul figlio e le attività che avevano precedentemente costellata la sua esistenza, furono messe da parte. La concentrazione sulla sola vita familiare però la lasciava insoddisfatta, pensò così di allenarsi al pianoforte, variante che non richiedeva sedute fuori casa. La sera, prima che il piccolo si addormentasse, strimpellava con suoni softs, musiche semplici ed orecchiabili; alla fine, intonava una ninna nanna, poi Bibien dormiva. L’alternativa era di coricarsi accanto a lui e parlare o leggere una favola. Sfogliavano insieme libretti illustrati con personaggi fiabeschi, oppure inventava storielle con trame mescolate a qualche ricordo della sua infanzia. Occasionalmente lo incitava a raccontare i giochi della scuola o gli accadimenti giornalieri, ma era difficile intavolare su questi argomenti una conversazione. Dei rapporti interpersonali, il bambino non lasciava trapelare alcunché e lei non sapeva aprire alcuna finestra sul suo mondo sconosciuto.
Arrivò quindi anche il tempo delle elementari. Prima dell’inizio, Denise chiese alle insegnanti di informare gli altri alunni sulla malformazione di suo figlio, tanto che non lo prendessero subito di mira con le solite domande o peggio perché non lo beffeggiassero. Il bambino tornava da scuola apparentemente sereno e i suoi genitori non avvertirono disagi o stranezze nel suo comportamento.
Dopo qualche settimana dall’inizio della scuola, a Bibien venne la febbre alta. Sua madre lo portò nel suo letto e lo rassicurò: “Oggi, niente scuola per te, niente lavoro per me. Restiamo a casa e ci godiamo il bel lettone.”
Il bambino rimase per un bel po’ in silenzio accovacciato vicino alla mamma, ad un tratto disse:
“Mamma, perché tutti mi guardano e ridono?”
Denise si raggelò e prese tempo per rispondere, poi volle rassicurarlo:
“Ora ridono loro, domani riderai tu. Ride bene chi ride ultimo, dice un vecchio proverbio. Infatti loro si terranno sempre quel brutto muso che hanno, tu invece, dopo che sarai stato operato, avrai una bocca davvero bella, un nasino alla francese, insomma sarai proprio un bel ragazzo.”
Il piccolo rimase per qualche secondo in silenzio poi obbiettò:
“Avrò pure il naso alla francese, ma resterò senza voce a forza di spiegare a tutti perché sono così.”
Mentre Denise pensava alla risposta opportuna, il bambino prese ad appisolarsi, così sua madre iniziò a fissare il soffitto pressata da grigi pensieri. Poi anche lei si assopì, complice la febbre che non sapeva ancora di avere.

Dalla nascita del figlio, Bruno e Denise avevano sempre cercato di parlare apertamente del problema di Bibien, quindi egli, trattava l’argomento con i compagni, così come aveva imparato. Un giorno, in vacanza, ai bordi della piscina dell’albergo, Bibien e sua madre, udirono un bimbetto che a tono alto e con cantilena irrisoria ripeteva: “Dracula, dracula”.
Denise individuato il ragazzino, gli si avvicinò con uno scatto fulmineo. Bibien la seguì e le disse sottovoce:
“Mamma, lascia perdere.”
Naturalmente Denise non l’ascoltò. Il suo cuore di mamma rispondeva al naturale impeto di difesa del piccolo.
“Perché lo insulti, prova a pensare che non è colpa sua se è nato così!”
Il bambino sconosciuto abbassò la testa, allontanandosi, lei ritornò al suo posto. Frattanto Bibien si era sdraiato accanto alla mamma senza più dire una parola.

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