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XVI
Nel
buio della camera da letto, la signora Giglioli stava appoggiata
con i gomiti al davanzale della finestra in uno stato quasi
catatonico. Con un turbine d’apprensioni, fissava l’oscurità,
senza inquadrare alcun pensiero, come quando qualcosa gira
vorticosamente e i cromatismi e le forme si mischiano, lasciando
intravedere solo un disco dal colore sporco. Da alcuni giorni
non provava emozioni, sentiva il grumo di una botta calda
da stemperare. Non aveva la sensazione di soffrire, era stordimento,
incapacità a racimolare le idee, come il muto stupore
che subentra ad uno scippo appena subìto. Guardando
in alto, si accorse che in cielo non brillava alcuna stella.
Era buio il cielo quella notte. Gli antichi scrutavano la
volta celeste perché credevano di indovinare, attraverso
le combinazioni astrali, il proprio futuro. Quando vedevano
oscuro si coprivano gli occhi con le mani e divenivano tristi.
Denise avrebbe voluto tapparsi gli occhi per non vedere il
buio che regnava dentro di lei e per non sentire i tentacoli
di quel mostro invisibile che stringono a morte ogni punto
vitale. Dopo un tempo imprecisabile si sforzò di abbandonare
ogni pessimismo, con la consapevolezza che non tutti i momenti
sono uguali. Ogni giorno palesa la sua storia. C’è
sempre un’alba e un tramonto, ma quanti colori da mattina
a sera, da un giorno all’altro! Domani sarà diverso,
pensava nel tentativo di lasciare spazio a migliori presagi.
Poi intravide una stella. No, era una luce itinerante. Un
aereo transitava in quel lembo di cielo. Denise immaginò
i viaggiatori, seduti l’uno accanto all’altro,
forzatamente inerti, nell’attesa di raggiungere la meta.
Suo marito poteva essere su quell’aereo o su di un altro
come quello, stretto alla sua nuova compagna, ansioso di approdare
ad una vita diversa. Aveva voluto voltare pagina, anzi abbandonare
un capitolo della sua storia; girare le spalle al passato,
cambiare, alla ricerca della felicità tanto rincorsa.
Non tutti hanno questo coraggio, egli l’ha avuto.
Da
diverso tempo Bruno e Denise non riuscivano a trovare un accordo
neppure sulle questioni più insignificanti. Agli interessi
sempre opposti, alle divergenze emotive, agli sfoghi incoercibili,
subentrarono screzi ripetuti che, prolungati nel tempo, ingigantivano
la reale portata dei problemi. Era un vivere quotidiano difficile
da sopportare. Giorni trascorsi in lenta successione, annegati
nel rancore e nell’incomprensione; giorni frustrati
da un’intimità non condivisa; dall’istinto
di difendersi per non essere soverchiati, con sempre più
rari momenti di conciliazione. Nessuno dei due rinunciava
ad essere intollerante, né sapeva subordinare il proprio
ordine d’idee a quello dell’altro.
Bibien soffriva nel vedere i genitori litigare. Sua madre
cercava di tacere in presenza del ragazzo, ma Bruno non sopportava
che la moglie facesse scena muta e quando c’era da discutere
la bombardava con tutte le domande possibili, magari provocandola,
finché era costretta a rispondere o a difendersi. Denise,
nonostante i buoni propositi di non belligeranza, non voleva
sempre cedere, specie sui metodi educativi per i quali i due
erano agli antipodi. In casa si respirava aria cattiva e il
ragazzo era trafitto dall’intensità di questa
percezione. Succedeva che si appostasse dietro una porta ad
origliare e, se la scena era muta, veniva fuori dal suo nascondiglio
e chiedeva con ansia:
“Perché non parlate? Avete litigato?”
La mamma lo rassicurava offrendo un pretesto per distrarlo,
ma non gli si poteva nascondere l’evidenza e nemmeno
attribuire alla normalità il glaciale silenzio che
sostituiva l’inveterata verbosità dei genitori.
La migliore soluzione sarebbe stata quella di mettere la parola
giusta a tutta la storia e la parola giusta era “fine”.
Non potevano vivere una vita di rancori, né danneggiare
Bibien già provato pesantemente dalla sorte per motivi
indipendenti dalla volontà di tutti. Ma quanta responsabilità
si assumevano con questa decisione? Sulla bilancia cosa sarebbe
pesato di più: la pace o la disgregazione della famiglia?
Bibien amava suo padre; stavano molto tempo insieme. “Gemelli
siamesi” li etichettava Denise, perché Bruno,
quando aveva una commissione da sbrigare, si caricava il figlio
in auto o in motocicletta e se lo portava in giro per la città.
Lei li vedeva partire gioiosi, con la medesima effervescenza,
l’uno a raccomandare, l’altro a fare programmi,
per tornare con qualche spesuccia inutile. Però le
divergenze, i tira e molla, influivano negativamente sul bambino
ed entrambi i genitori ne erano consapevoli. Fin dal tempo
della scuola materna Bibien aveva capito bene che tra i due
litiganti il terzo “gode” e non per il piacere
di vedere i genitori in disaccordo, ma perché in tali
frangenti riusciva sempre ad ottenere il suo tornaconto.
“Chi è più severo fra mamma e papà?”
chiese una volta una vicina di casa. Il piccolo senza pensarci
due volte rispose:
“Mamma dice una cosa, papà un’altra ed
io faccio quel che voglio”.
Un’affermazione stupefacente per un bambino di cinque
anni, una bella lezione per gli adulti! Ciò nonostante
nulla cambiò nel comportamento comportamentale della
famiglia Giglioli.
Denise andava maturando la sua idea e valutava i pro e i contro.
Gli adempimenti di routine erano stati sempre e solo i suoi,
ma non le pesavano, anzi amava ficcare il naso dappertutto.
Accompagnare a scuola il bambino, andarlo a riprendere, fare
insieme i compiti scolastici, presenziare alle riunioni e
ai colloqui con gli insegnanti, insomma attendere a tutte
quelle incombenze di regola estese ad entrambi i genitori,
ma di fatto salomonicamente affidate ad uno dei due. Il lavoro
le permetteva un orario flessibile; così riusciva a
rispettare tutti gli impegni, senza penalizzare l’una
o l’altra cosa, anche se era sempre di corsa e sempre
in ritardo.
“Allo sport, ci penso io” sosteneva suo marito
quando cercava di interessare il piccolo alle corse automobilistiche,
che a Bruno piacevano tanto.
“Quello non è uno sport” gridava Denise
indispettita al di sopra dell’assordante rombo delle
auto in corsa sulle piste, “ma solo una sadica attesa
dell’incidente spettacolare.”
Quando per Bibien arrivò veramente il momento di praticare
sports, suo padre non c’era più. Denise provava
disagio a seguirlo nelle competizioni. Attaccata alla rete
dei campi di calcio, a tifare in silenzio accanto ai papà
che urlavano consigli che lei non sapeva dare. Per il ragazzo
era anche peggio, perché suo papà non poteva
ammirare le sue cannonate in porta.
Venne un periodo in cui Bruno abbandonò i suoi attacchi
quotidiani, cambiando radicalmente il proprio atteggiamento
nei confronti della moglie. Divenne dolce, accondiscendente,
premuroso e taciturno. Nei mesi precedenti aveva minacciato
più volte di andarsene. e questa benigna letargia bellica
fece capire a Denise che la spada contro la famiglia era sguainata,
si trattava solo di dissimulazione per l’attacco finale.
Il nonno Francesco era passato da poco a miglior vita, lasciando
un vuoto considerevole attorno a sé e Bruno da quel
momento si era sentito adulto, libero di prendere le sue decisioni
in piena autonomia.
Alla fine di giugno mamma e papà accompagnarono Bibien
in montagna, dove il bambino avrebbe soggiornato per un mese.
In assenza del figlio, Bruno ebbe il coraggio di parlare:
“Io me ne vado” disse una sera a Denise mentre
insieme giocavano a pinnacolo. Pronunciò questa frase
con lo stesso tono usato per abbassare l’una o l’altra
carta.
Sua moglie trangugiò, rimase in silenzio per pochi
secondi, poi rispose:
“Va bene” e smise di giocare.
La domenica successiva i coniugi Giglioli si recarono a far
visita al figlio. Denise avrebbe preferito attendere il rientro
a casa del piccolo per comunicargli la brutta notizia, ma
Bruno si sentiva in dovere di dirgli subito la verità.
Nel pomeriggio, mentre giocavano tutti insieme una partita
a bocce, suo padre gli mormorò sorridendo:
“Papà andrà per un certo periodo ad abitare
con la nonna, per non lasciarla sola ora che il nonno non
c’è più.”
Il viso del ragazzo si rabbuiò repentinamente. Lasciato
il gioco si allontanò per andare a sedersi su di un
ripiano nell’angolo in fondo al bocciodromo, lontano
da tutti. Sul suo viso si impresse una maschera pensierosa
e triste. Chiuso ad uovo, con una mano che sorreggeva la testa,
le guance rosse e gli occhi spalancati, fissava nel vuoto.
Finché non fu l’ora di andar via, non cambiò
positura e nessuno osò distoglierlo dal suo pietoso
isolamento. Non pronunciò una sola parola, ma gli occhi
di un bambino sanno parlare a chiare lettere e i suoi furono
alquanto eloquenti. La pillola era stata assaporata in tutta
la sua amarezza.
Al rientro a casa Bibien trovò la situazione che gli
era stata preannunciata, ma che sperava, in fondo, di non
di trovare. Quella sera, prima di addormentarsi, proclamò
con disinvoltura:
“Mamma, ora siamo io e te!”
Aveva nove anni. Da quel momento non fece più alcun
accenno alla separazione. Rimuoveva ogni motivo di sofferenza
dalla sua mente e a sua madre mancava il coraggio per affrontare
l’argomento. Non poteva esimersi dall’attribuire
anche a se stessa, la responsabilità di ciò
che era accaduto.
Il ragazzo incominciò ad incontrare saltuariamente
il padre. Insieme avevano una tappa fissa: il supermercato,
così era più difficile che nascessero domande
imbarazzanti, poi c’era sempre un regalino di cui occuparsi.
Solo una volta si trovarono tutti e tre in auto. Bibien seduto
sul sedile posteriore con la mano costantemente appoggiata
sulla spalla del papà, per un tanto desiderato contatto
fisico, e Denise accanto a Bruno. Ad un tratto il piccolo
prese il braccio del papà e lo accompagnò fino
a raggiungere la spalla della mamma. A casa, sua madre non
volle ignorare questa azione.
“Ho capito le tue intenzioni oggi, appoggiando il braccio
di papà sulla mia spalla, ma quello che ti piacerebbe,
ora non è possibile. Tuo papà è sempre
tuo papà, ma io e lui insieme non possiamo ritornare,
per ora. Come vedi siamo più tranquilli, non ci sono
contrasti fra di noi, viviamo serenamente e tu vedrai tuo
padre ogni volta che lo desidererai. L’amore per te
non svanirà mai, anche se dovesse, nel più sfortunato
dei casi, trovare un'altra donna.”
Quest’ultima frase non fu pronunciata a caso. Qualcuno
le aveva riferito che Bruno girava per le vie della città
mano nella mano con una straniera.
Dopo pochi mesi, il nostro Ulisse attraversava metà
mondo, sensibile al canto di una sirena che aveva emesso il
suo più melodioso suono per la propria sopravvivenza
e quella dei suoi due figli.
XVII
La
natura umana è un mistero. Mille anni di studi e strategie
per scoprire ogni angolo più recondito della mente,
ma nel vivere quotidiano succede di non captare segnali molto
importanti. Quando un cavallo diviene improvvisamente bizzarro,
si cerca di scoprirne la ragione, se accade ad un proprio
figlio, si attribuisce tutto all’umano divenire. E’
un’autodifesa; lo spirito di conservazione che fa scattare
i suoi meccanismi e per la coscienza tutto è ascritto
alla normalità, se pur ai limiti. Così Denise,
minimizzava i comportamenti del figlio, quando iniziarono
momenti di trasgressione. Il ragazzo tornava da scuola con
la puzza di fumo addosso; non era mai tempo per i compiti
e diventava ogni giorno più ribelle.
Bibien stava vivendo un periodo nuovo: suo padre l’aveva
lasciato libero e in questa libertà voleva sguazzarci.
Le riflessioni sul perché se ne fosse andato, e su
come potesse fare a meno del suo affetto, lo spingevano a
cogliere l’aspetto positivo della cosa e cioè
la libertà d’azione. Ora poteva fare ciò
che voleva: sua madre se la sarebbe giocata senza difficoltà.
Doveva ricavare qualcosa di buono dalla nuova condizione:
basta con le amarezze! Nonostante però i buoni propositi,
gli interrogativi si presentavano senza che scegliesse di
porseli: perchè suo padre se n’era andato così?
Forse non era veramente suo padre? Forse lui era stato adottato?
Come poteva suo padre rinunciare all’affetto di un figlio?
Più rifletteva e più aveva difficoltà
a comprendere. Mia madre avrà le sue colpe, ma io che
c’entro? A casa fingeva normalità, tuttavia nei
momenti in cui veniva ostacolato nelle proprie scelte, si
adirava con manifestazioni incontrollate. Succedeva che rompesse
un vetro con un pugno, oppure con una manata rovinasse a terra
qualcosa. Quando l’accesso d’ira scompariva, veniva
colto da crisi che bloccavano la motorietà degli arti
superiori. Allora, spaventato implorava aiuto.
“Non riesco a muovere le braccia,” piangeva disperato,
“mamma aiutami.“
Sua mamma lo faceva sdraiare sul letto e gli massaggiava le
braccia, affinché si rilassasse e i muscoli riprendessero
le loro funzioni.
Questi fatti non erano frequenti, Denise si preoccupata molto
quando accadevano, poi cercava di dimenticare.
XVIII
il
sole era troppo caldo quel pomeriggio anche se la brezza ne
attenuava i brucianti effetti sulla pelle scoperta. Non erano
mai stati al maneggio, ma le abbondanti descrizioni di De
Marchi lo avevano reso un luogo familiare. Non si vedeva alcuno
nei dintorni: una cascina con la faccia di cent’anni
fa, alla quale il genio dell’architetto non aveva ancora
dato il giusto contegno, si offriva alla vista come un’anziana
contadina priva di orgoglio. Le imposte graffiate dalle intemperie
e scolorite dal sole, il fienile a giorno con le balle di
fieno accatastate; una lunga scala appoggiata al muro scrostato;
una porta aperta sul deposito degli attrezzi; un portichetto
con ogni cosa appesa; compresa la gabbia con il pappagallo;
un vecchio cane muto, legato alla catena.
“C’è qualcuno?” disse Nora a voce
alta affacciandosi a destra e a manca. Nessuno rispose.
“Guarda là ci sono le stalle, troveremo qualcuno.
Vieni Bibien andiamo a vedere i cavalli”
I tre si diressero verso i box. Nora e Denise erano eccitate
per l’improvvisata che stavano mettendo a punto a De
Marchi; Bibien emozionato per la nuova avventura. Si appostarono
timidamente all’esterno della scuderia osservando gli
animali costretti in minute cabine. Ad un tratto venne loro
incontro una persona.
“Guarda, guarda, questo deve essere Elpidio”
sussurrò Nora prima che l’altro la potesse udire.
Rispondeva all’immagine che si erano fatte dai racconti
di De Marchi e nel suo look erano inscritte le caratteristiche
del personaggio: una canottiera nera ne metteva in risalto
l’abbronzatura; jeans a gamba larga infilati in stivali
di gomma, qua e là spruzzati di fango; capelli, ancora
folti, dalle bande brizzolate, che ricadevano sulle spalle
in modo composto; tutto corrispondeva all’iconografia
più classica fornita dal De Marchi.. Il volto contratto
e le grosse sopracciglia corrugate, davano al viso un aspetto
che incuteva soggezione.
“Cerchiamo il signor De Marchi” disse Nora per
prima.
“E’ appena uscito a cavallo, ritornerà…
non so quando”
“Di solito quanto rimane fuori?”
“Dipende, anche due ore se si allontana dalla zona”
Denise guardò Nora strizzandole un occhio, poi disse
garbatamente:
“Vorrei mettere mio figlio su un cavallo”
“Vuole farlo cavalcare?”
“Si, mi piacerebbe”.
Elpidio con aria arcigna s’informò:
“E’ la prima volta?”
Denise rispose di sì.
“Ok, fra quindici minuti si esce”
“Esce dal recinto con mio figlio che non è mai
salito su di un cavallo?” esclamò con sorpresa
la mamma del ragazzo.
“Si è normale” rispose l’uomo, senza
aggiungere altro.
“Non è tanto normale, ma se è così
vengo anch’io” affermò con risolutezza
Denise.
“Anch’io” fece eco Nora.
“Tutti la prima volta?”
“Si” risposero.
Elpidio le analizzò con uno sguardo veloce, poi si
allontanò. Lo videro scendere nel campo sottostante,
prendere per la cavezza un cavallo che stava pascolando, risalire
di lena con l’animale, poi ridiscendere e fare la stessa
cosa con altri due. Quando i cavalli furono legati ad una
staccionata dell’aia, l’uomo montò sul
dorso di ciascuno una coperta e sopra vi legò la sella.
Dopo aver girato le briglie intorno alla testa di un cavallo
maculato, si rivolse al ragazzo:
“Questo è per te, sali” e lo aiutò
a montarvi sopra.
Prese poi un bell’esemplare fulvo, fissò il morso
e sollevando la criniera, trattenne le redini nella mano sinistra.
Volse uno sguardo penetrante a Nora e le disse brusco:
“Riesce a salire?”
“Ci provo” rispose.
La donna sfiorò con occhi interrogativi l’amica,
ma non poteva perdere tempo, quindi appoggiò il piede
sulla staffa e, tirando fuori un’agilità da circo
equestre, con un balzo si ritrovò a cavalcioni. Toccò
quindi a Denise. Le riuscì difficile mettersi in groppa,
dovette essere spinta con molta energia, rischiando di scivolare
dalla parte opposta.
Uscirono al passo, un po’ spaventati, ma felici. Non
si parlavano, attenti solo a seguire le indicazioni di Elpidio
che in testa alla fila stava in posizione ritorta, con il
busto completamente girato per controllare i principianti.
Bibien dietro il capofila, poi Denise, per ultima Nora. Elpidio
non smetteva di distribuire consigli sulla postura e correva
avanti e indietro, dando sferzatine con un ramoscello alla
coscia dei cavalli, perché allungassero il passo. Le
bestie, non sentendosi guidate con sufficiente vigore, ramingavano
o si fermavano a brucare le foglie degli arbusti lungo il
sentiero. Man mano percorrevano la strada, si attenuava nei
tre il timore di cadere e prendeva piede un il godimento di
passeggiare attraverso i boschi come cavalieri d’altri
tempi, osservare dall’alto la macchia e respirare l’aria
profumata del bosco.
Dopo poco meno di un’ora rientrarono alle stalle. I
loro muscoli erano doloranti, ma il cuore felice. Nora e Denise
decisero di ritornare la settimana successiva. Avevano concertato
di darsi alla pazza gioia, o almeno di fare qualcosa di soddisfacente
al di fuori degli impegni di lavoro e di famiglia. Questa
distrazione appagava il corpo e lo spirito e presentava il
vantaggio di coinvolgere Bibien in uno sport sano.
“La libertà riserva aspetti interessanti, non
lasciarteli sfuggire,” suggeriva Nora a Denise quando
la vedeva un po’ giù di morale.“Se non
si è capaci di cogliere il meglio della vita, si finisce
per piangere sul latte versato senza possibilità di
recupero. Non è forse già tanto quello che abbiamo,
senza aspettare elargizioni dagli altri? Noi ne facciamo a
meno del poco che gli altri ci potrebbero dare!”
Ne aveva avute lei di aspettative, regolarmente disilluse
con il succedersi immutabile dei giorni! No, gli altri non
erano come lei li avrebbe desiderati, era inutile illudersi
né volere a tutti i costi sovrapporre la propria sagoma
al a quella dell’esistenza altrui. Nora pensava all’eclatante
esempio del proprio matrimonio. Con il marito non poteva vantare
alcuna affinità e la consonanza emotiva dei primi tempi,
era svanita come una bolla di sapone.
Con puntualità, il mercoledì seguente, all’ora
stabilita, i tre si soffermarono fuori dalle stalle in attesa
che Elpidio preparasse i cavalli per la passeggiata. E così
per le settimane successive.
Elpidio era un tipo selvaggio, ma nella scuderia aveva molti
accoliti. A capo delle comitive, emanava il fascino del condottiero
e stupiva per le sue destrezze sul cavallo. Aveva uno sguardo
acuto e non mancava di mordente, ma il suo vocabolario era
fatto di un centinaio di parole e molte di queste erano da
ragazzotto prosaico. Conduceva la sua esistenza in funzione
dei cavalli, dedicando loro tempo e fatica. Gestiva la stalla
con passione, nulla avrebbe determinato in lui una scelta
diversa di lavoro.
Trascorsi alcuni mesi, Denise si accorse che, a conti fatti,
non poteva permettersi troppi svaghi e che il bilancio di
famiglia doveva rientrare. Dovette, suo malgrado, rinunciare
alla cavalcata settimanale; oltretutto Bibien non aveva, col
passare del tempo, manifestato entusiasmo particolare per
questo hobby. Nora invece, potendoselo permettere, alla fine
dell’estate acquistò un cavallo tutto suo. L’amica
la invidiò.
Nella primavera successiva, Denise si recò al maneggio
dopo alcuni mesi di assenza. Elpidio falciava l’erba
in un campo vicino e nell'aia davanti alle stalle trovò
Nora, con un foulard contadinesco in testa, intenta a scopare
lo sterco di cavallo. Stupita, le chiese da cosa era ispirata
per tale double face, visto che una laurea e le sue molteplici
competenze non potevano essere utilizzate in quel mestiere:
“Mi piace. Stare qui mi piace in qualsiasi modo, anche
pulire la cacca dei cavalli.”
“Hai ragione. Anch’io starei qui ogni giorno,
se potessi.” rispose la collega.
Quel luogo, a ridosso della collina, prospiciente una vasta
e pianeggiante vallata, consente di raccogliersi in una pace
d’eternità. Quando la bruma invernale o la caligine
estiva lo permettono, si possono osservare i monti circostanti
in tutta la loro bellezza. Una zona di boschi, ampi prati
e sentieri sterrati. Un ruscello, non sempre limpido e privo
di sporcizia, passa fra il colle e una pineta con alberi dai
tronchi altissimi. Sotto la pineta, il terreno è intensamente
coperto da aghi di pino, che danno morbidezza al tappeto color
terra di Siena, trattenendovi il vapore acqueo, l’humus
lascia andare un profumo acuto di vita. Oltre la pineta, un
paesaggio di radure e dossi coperti di vegetazione, dove abbondano
querce, platani, aceri, robinie e arbusti selvatici. Nei prati,
un rifiorire continuo di cicorie macchiano di giallo, in primavera
e in estate, il verde, più verde del solito verde.
Denise uscì per una cavalcata con Nora ed Elpidio e
al rientro si trattenne con loro a chiacchierare sull’aia.
In quel breve lasso di tempo la donna notò l’amica
appoggiare confidenzialmente la mano sul polso di Elpidio.
All’altro sfuggì uno sguardo pieno di luce, un
profluvio incontenibile di messaggi. Qualcosa di importante
era successo.
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