07 indice
- segue - indietro
XIX
La
tomba era come tutte le altre pietra grigia scurita dal tempo.
La lapide riportava:
JAMES DOUGLAS MORRISON
1943- 1971
Sulla
stele erano appoggiati due vasetti di fiori finti e sopra
la lastra a terra c’erano tre mazzi di fiori freschi,
incellophanati. Un gruppo di ragazzi sostava in ossequioso
silenzio, qualcuno portava con se una chitarra. Dopo alcuni
minuti si allontanarono tutti fuorché il nucleo Giglioli.
Bibien, che finalmente aveva potuto guadagnare un posto davanti,
stava concentrato, a testa bassa; dietro di lui i genitori,
incuriositi e rassegnati a quell’esperienza. I due adulti
si davano di tanto in tanto occhiatine divertite osservando
il contegno del figlio davanti a quel sepolcro. Bibien se
ne accorse e chiese di essere lasciato solo per qualche minuto.
“Ti aspetteremo fuori” disse suo padre con malcelata
ironia.
I genitori si avviarono verso l’uscita, interrogandosi
sull’opportunità di quella visita al cimitero
di Père Lachaise ed esprimendo considerazioni negative
sulle reciproche qualità di educatori. Forse Parigi
non era abbastanza interessante per sprecare una mattinata
in un cimitero sconosciuto? Così parlando si resero
conto che in quei meandri di tombe grigie non ci si raccapezzava.
Dopo un po’ di avanti e indietro, si ritrovarono all’uscita,
ma si chiesero se Bibien sarebbe stato in difficoltà
a venirne fuori.
“Non ti preoccupare,” sostenne Denise, “in
qualche modo uscirà. E’ più sveglio di
noi.”
Raggiunta la piazza esterna al camposanto, si sedettero su
di una panchina in attesa del figlio.
Da
molto tempo Bibien andava esprimendo il desiderio di recarsi
a Parigi per visitare la tomba del suo idolo, così
Bruno, rientrato in Italia per sistemare alcune faccende in
sospeso, si sentì in dovere di accontentarlo.
Bibien in quel periodo preadolescenziale, fondava tutto il
suo vivere su Jim Morrison: era il suo mito, la sua grande
passione. Il personaggio aveva conquistato i giovani con la
musica impregnata di messaggi trasgressivi, ma espressa con
squisita poesia. Le parole erano rabbiose verso una vita che
Morrison disprezzava al punto di dissolverla con le peggiori
abitudini. L’originale artista visse negli eccessi,
lanciando, con le sue canzoni, critiche alla normalità
dei benpensanti e invitando alla ricerca di un vivere più
stimolante, perché nulla ha veramente valore.
Denise, pur registrando la negatività del mito, non
si opponeva a quella preferenza. Farlo sarebbe stato controproducente,
anche se spesso non riusciva a frenare il proprio disappunto.
In quella circostanza, tuttavia, Jim Morrison aveva riunito
una famiglia e la visita al cimitero, l’imput per ritrovarsi
e fare un viaggio insieme nientemeno che a Parigi.
Dopo che i genitori si furono allontanati, Bibien estrasse
dalla tasca del kitway tre sigarette, sottratte furtivamente
al padre, e una lattina di birra asportata, senza che i genitori
se ne accorgessero, dal frigorifero della camera d’albergo.
Appoggiò tutto sulla larga stele mortuaria.
“Ecco Jim, per te”. e dopo avergli confidato tutta
la tristezza che aveva dentro e confermata la perenne solidarietà
con le sue teorie, lo salutò ricordando alcuni passaggi
verbali dei brani che più gli piacevano: nessuno uscirà
vivo i qui. Prima di entrare nel grande sonno voglio udire
l’urlo della farfalla – poi, rosso in viso, accalorato
dall’emozione, si allontanò alla ricerca del
vialetto che portava fuori dal cimitero.
Camminò a passo veloce perché i suoi genitori
lo aspettavano ormai da un po’, ma quei sepolcri grigi,
lugubri, impersonali, quei vialetti simili fra loro, non gli
permisero di orientarsi al meglio e quando si ritrovò
fuori, si accorse di aver imboccato un’uscita diversa:
quella piazza non l’aveva mai vista, né scorgeva
nei pressi i volti amati di papà e mamma. Ci doveva
essere un altro ingresso. Decise di ritornare sui suoi passi
seguendo un gruppetto di ragazzi che avevano sicuramente come
meta la tomba di Jim. Raggiunto il sepolcro ormai noto, si
accorse che sigarette e birra erano sparite. Non volle pensarci
e si concentrò sulla direzione da prendere per uscire
da quel cimitero. Trovò finalmente la strada giusta
e i suoi genitori appostati all’ingresso con aria preoccupata.
“Perché ci hai lasciati ad aspettare quasi un
ora?”
Il ragazzo, felice di aver ritrovato i suoi, spiegò
quanto era successo e i tre immaginarono la scena della mano
di Jim che fuoriesce dalla tomba per fumare e bere. Risero,
poi si infilarono in una brasserie per uno spuntino veloce.
XX
Dietro
la scrivania, seduto sulla bella poltrona color champagne,
il professionista ascoltava la cliente ostentando un pensieroso
silenzio. Sulle labbra un sorriso smorzato, proprio di chi
è in attesa di proporre la giusta soluzione. Denise
parlava ad occhi bassi, riferiva delle sue angosce con opzioni
lessicali di tutto rispetto a salvaguardia della sua dignità
di fronte ad una persona sconosciuta. In mano aveva un foglio
ripiegato che, al termine dell’eloquio, mise davanti
allo psicologo.
L’uomo abbassò compuntamene la testa mostrando
la pelle lucida del cranio e lesse:
“Innamorato di un sasso
Ieri mi ha telefonato mio padre. Per fine anno vado da lui,
ma ho saputo una cosa che mi ha colpito molto.
Mi aveva promesso che sarebbe rimasto in Italia per almeno
due anni, invece, alla fine di gennaio se ne andrà
nelle Filippine. Là abitava sua moglie e vi giuro che
parlare della moglie di mio padre e sapere che non si parla
di mia madre, mi vengono i brividi. Ed io sono più
scemo di quel cane: gli vado dietro come fosse una persona,
mentre so che un essere che non sa provare affetto, non può
essere un “essere”. Mi ha tradito, non manterrà
la promessa che per me contava quanto non si può contare.
Chissà se tornerà. Anche i sassi sono qualcosa?
E allora perché penso sempre a lui? Attacco le sue
foto e quelle della mia ex famiglia sul diario, poi se le
vedo mentre sfoglio la ‘smemo’ mi sento morire.
Perché?”
“Quando
l’ha scritto?” chiese lo psicologo.
“Penso un po’ di tempo fa, non so esattamente,
l’ho trovato per caso su di un floppy.”
“Non si era accorta che suo figlio soffriva?”
“Ha tante ragioni per soffrire, ma quando il dolore
è più pungente si impegna maggiormente a mascherarlo,
teme di dispiacermi, forse, almeno questo mi sembra di aver
capito………”
“Perché non ne parlate insieme”
“Ma… non so…”
“Certo, certo, le cose spiacevoli si ripongono in scansie
che poi si chiudono ermeticamente. E’ più facile
soddisfare i suoi bisogni più immediati che guardarlo
negli occhi per scoprire quello che cova nell’animo.”
E giù con sentenze a raffica. Denise ascoltava il professionista
a bocca aperta, con gli occhi corrugati, mortificata per gli
errori che andava addebitandosi e attenta a non lasciarsi
sfuggire la minima parola.
XXI
Tornando
a casa ripensò all’incontro. Lo psicologo pelato
aveva ragione! Quando mai aveva saputo ascoltare suo figlio
al di là delle parole pronunciate! Quando ne aveva
colto i disagi, dietro gli atteggiamenti di arroganza! Perché
non riusciva a tener duro nell’esigere da lui il giusto
impegno nei suoi compiti, invece di aiutarlo perché
si sbrigasse prima? Nell’educazione dei figli bisognerebbe
metterci un ingegno pari a quello di Michelangelo nella sua
Pietà, disse qualcuno. Bella teoria! Magari la buona
volontà dei genitori è superiore, ma chi possiede
il talento di Michelangelo? Nessun genitore serba il segreto
della giusta educazione. Ogni figlio si presenta con la propria
personalità, con l’insieme di esperienze vissute
in famiglia e fuori, con un’emotività e una reattività
non sempre prevedibili. I genitori si attivano con buone intenzioni,
ma anche con la loro precaria umanità e nonostante
gli incidenti di percorso. Pure gli adulti sono figli e arrivano
a fare i genitori magari con un bagaglio di infanzia tradita.
Poi c’è lo scontro generazionale, il rifiuto
dell’imposizione, il muro. Le teorie pedagogiche non
sono sempre applicabili.
Con queste riflessioni, l’ex signora Giglioli, ricordò
quel vecchietto sconosciuto, ai bordi di una giostra per bambini
che, vedendo un piccolo piagnucolare perché il padre
lo rimettesse sopra il cavalluccio, sentenziò: “Ora
fa i capricci per un giro sulla giostra, domani per la moto,
poi ti tocca andarlo a prendere dai carabinieri…”
Denise aveva definito la battuta pessimistica, ma ripensandoci
in quel momento ne comprese l’essenza. Un bambino piccolo
puoi accontentarlo facilmente perché le sue richieste
spesso rientrano nelle tue possibilità, ma quando diventano
inaccettabili?
Bruno se ne era andato da casa ormai da tempo. Dopo il primo
anno era tornato per una breve vacanza, ma poi non si era
più visto e raramente ricevevano notizie. Finché
era rimasto in Italia, un s.o.s. ogni tanto lo aveva raccolto,
o almeno si telefonavano e sporadicamente si incontrava con
il figlio. La sua partenza per le Filippine aveva fatto precipitare
la situazione. Iniziarono momenti veramente difficili. Bibien
viveva il particolare periodo dell’adolescenza. La sua
pesante valigia di esperienze gli aveva temprato il carattere:
voleva sempre fare a modo suo e non c’era più
la pur debole voce paterna che lo consigliava e lo teneva
a freno.
Gli interventi chirurgici si erano succeduti nel tempo secondo
i programmi. Era stato sottoposto ad una prima modifica del
naso, penultima operazione della serie. L’ultima sarebbe
avvenuta a 20 anni con ritocchi definitivi, al termine della
crescita.. Per questo Bruno si era sentito libero di partire.
Bibien aveva affrontato ogni intervento senza dare segni di
preoccupazione, da adulto, padrone di se stesso, anche se
nell’animo, come raccontò al suo computer, provava
una gran paura. Paura per il dolore fisico, timore per il
risultato.
Prima di iniziare la terza media, quando già il ragazzo
sapeva che suo padre se ne sarebbe andato lontano, dirottò
tutte le sue aspettative sulle modifiche al naso. Quei ritocchi
lo avrebbero sensibilmente trasformato e tutta la famiglia
contava su quest’importante intervento. Dopo l’operazione
invece il naso presentava proporzioni sgraziate. Bibien, svegliatosi
dall’anestesia, chiese all’infermiera di portargli
uno specchio. Si osservò per bene e per tre giorni
perse la parola. Denise, vedendo suo figlio deluso, come intimamente
lo era lei, cercò di rassicurarlo:
“Non sarà sempre così il naso. Ora è
gonfio per l’operazione: devi aver pazienza qualche
giorno per capire veramente come sarà.”
Ebbero tutti pazienza, ma al momento di lasciare l’ospedale,
il nasino sempre sognato era ben diverso da ciò che
si vedeva sul viso del ragazzo. Accomiatandosi dal chirurgo
Denise espresse le sue perplessità circa le dimensioni
del naso. Il medico rispose:
“E' quello giusto per il suo viso.”
Non restava che sperare che si sgonfiasse ulteriormente.
Il naso rimase troppo lungo e grosso, inoltre le narici avevano
una forma tutt’altro che regolare. Le ultime modifiche
e perfezionamenti dovevano essere fatte oltre i diciotto anni,
ma questo, se dava speranze per il futuro, non dava tranquillità
per l’immediato. Bibien continuava ad avere lineamenti
troppo diversi da tutti gli altri.
Più avanti Denise troverà questo scritto su
un floppy:
“Perseguitato
dall’idea dell’operazione non riesco a dormire.
Forse non è proprio quella che mi spaventa, forse solo
una stupida idea…Non sarà una cosa tanto leggera,
anche se gli altri non la pensano così; me ne sono
accorto perché tentano di farmi notare i vantaggi che
ne deriveranno.”
“Ho
fatto male a preoccuparmi così già prima di
entrare in ospedale. Non per questo posso dire che mi sbagliavo,
anzi è stata più dura di quanto mi aspettassi.
Non mi era mai capitata una tristezza simile in ospedale,
anche se ci sono stato molte volte. Pensavo che crescendo
sarebbe stato più semplice, ma mi sbagliavo…..
Sembrava che tutti i miei progetti, tutti i miei calcoli,
tutte le mie speranze, svanissero di fronte al male, al dolore,
alla tristezza. La cosa più vera, la cosa più
grande e più potente ai miei occhi erano i ricordi.
Dove non riusciva la mamma o il papà arrivavano i pensieri,
in particolare dei miei cugini e dei miei amici. Quando sentivo
più dolore fisico o morale pensavo a loro. Questo mi
faceva riflettere su quanti problemi abbiamo, da me che sono
il più piccolo a Viviana e Giulio che sono i più
grandi. Anche agli amici pensavo molto, anche loro mi tiravano
su di morale e forse per questo sono miei amici. CUGINI E
AMICI MIEI NON SAPRO’ MAI COME RINGRAZIARVI”
“Poi ci volle un po’ per riprendermi…. Ero
troppo abituato a quella faccia che avevo visto per più
di dodici anni.
Dopo l’operazione, quando mi vidi per la prima volta,
per poco non mi prese un colpo. Ora è quasi tutto a
posto, ma sul mio volto tracce di normalità non le
ho ancora viste. Mi dicono che sarò normale alla fine
di tutto, magari hanno ragione (ammesso che sarò ancora
vivo); non mi resta che fidarmi.
indice
- segue -
indietro
Tutti i diritti sono riservati all'autrice: non è consentita
copia e uso dei testi sotto qualsiasi forma senza autorizzazione.