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BIBI’ E IL COMPAGNO BAIOCCHETTO

Sono nata in Via Madonna dei Monti, uno dei quartieri più antichi di Roma, in una vecchia casa col gabinetto sul balcone. L’unico ricordo nitido che ho di quella casa è il gabinetto.
All’età di due anni già abitavo a San Saba, quartiere dell’Aventino, dove una sorella di mio padre riuscì ad ottenere una casa popolare in Piazza Gian Lorenzo Bernini, una Piazza circondata da graziosi villini, così bassi da permettere, a coloro che vi abitavano, di guardare il cielo senza alzare lo sguardo.
Fra due ali di villini troneggiava la mia casa: una palazzina gialla di soli due piani.
Sotto le mie finestre, due piccoli negozi, uno di pane pasta e drogheria e l’altro di macelleria, rifornivano tutto il quartiere, un quartiere sorto su una zona archeologica con il sottosuolo formato da cunicoli e catacombe, adatto a sopportare solo piccole costruzioni. A raggiera, fra un villino e l’altro, si snodavano stradine verdeggianti e stracolme di fiori.
Questi vialetti in miniatura a primavera ubriacavano di profumo tutti coloro che avevano la fortuna di percorrerli; ognuno di essi terminava con una gradinata, che noi chiamavamo “scaletta”. Grazie a queste “scalette”, la parte alta del quartiere si congiungeva con il Viale Giotto che, dalle Terme di Caracalla si snodava fino alla Piramide Cestia. Questo viale, alberato da platani, era costeggiato in tutta la sua lunghezza dalle millenarie Mura Aureliane, erette dall’imperatore Aurelio per delineare e difendere la città di Roma.
Una quarta gradinata, costruita a due livelli, con decine e decine di gradini (riservata alle persone giovani e forti di cuore) collegava il mio quartiere con quello di Testaccio (storico per il suo famoso “Monte dei Cocci”) separati solo da un grande giardino che ne delimitava i confini.
Ma l’unico, vero accesso importante per raggiungere Piazza Bernini era la salita di San Saba, un viale largo e imponente ombreggiato da grandi platani e trono della millenaria Basilica.
Alla sommità del Viale, qualche metro oltre l’ingresso principale della Basilica, all’inizio di Piazza Bernini, un bar con giardino, una rivendita di vini e oli e un piccolo negozio di barbiere completavano l’intero centro commerciale del quartiere.
Ma il fiore all’occhiello, per noi bambini, era il giardino comunale, incastonato al centro della Piazza e degnamente coronato da villini.
Il “giardinetto”, come noi lo chiamavamo, recintato da una robusta staccionata, ospitava pini così alti da impedirmi, quando mi affacciavo, di vedere il campanile, mentre vedevo e "ascoltavo" le due vispe fontanelle, croce e delizia delle nostre madri.
Dalla finestra della cucina, d’inverno, quando la vegetazione era meno rigogliosa, spingendo lo sguardo oltre il giardino, potevo vedere l’ingresso secondario della Chiesa, i carrettini di frutta e verdura e, con un po’ d’immaginazione, anche la scuola elementare “Leopoldo Franchetti” con accanto la colorata edicola dei giornali.
Una Piazza senza tempo che, da sempre, respira e respirerà millenaria storia.

*** *** ***

A mio padre quella casa non l’avrebbero mai data perché non aveva “la tessera del fascio”:
“Preferisco dormire sotto i ponti - diceva - ma la tessera mai!”
Non andammo a dormire sotto i ponti perché mia madre s’iscrisse al partito e mio padre salvò i suoi principi di libero pensatore.
Quando andammo ad abitare a Piazza Bernini la mia famiglia era composta da mio padre, mia madre e mia sorella Marisa di soli sedici mesi più grande di me.
Nostra madre aveva l’abitudine di vestirci allo stesso modo e ci avrebbero confuse per gemelle se mia sorella non avesse avuto dei bellissimi boccoli biondi a molla, fermati da un enorme fiocco, in netto contrasto con i miei capelli lisci e sottili, di colore castano, così sottili che mamma, prima bagnava il pettine nell’acqua e poi mi pettinava la frangetta perché si appesantisse e mi restasse dritta.
Quello che ricordo dei miei primi anni di vita, oltre al gabinetto, sono gli “svenimenti” di mia madre. Mi spiegarono che quegli svenimenti erano la conseguenza di un’eccessiva dose di cloroformio somministratole durante un’operazione di appendicite, in età adolescenziale.
A casa c’era sempre una bottiglia d’aceto a portata di mano. Nostro padre ci aveva insegnato che, in caso di svenimento, dovevamo prendere la bottiglia, metterla sotto il naso di mamma e aspettare che riaprisse gli occhi; nel contempo dovevamo schiaffeggiarle, delicatamente, le mani e il viso, sventolandola il più possibile. Nel caso che nostra madre, svenendo, fosse caduta in terra, dovevamo chiamare un vicino di pianerottolo perché ci aiutasse a sollevarla e adagiarla sul letto. Mia madre, per fortuna, sveniva sempre a “portata di sedia” e tutto si risolveva nello stretto ambito familiare.
Con gli anni compresi che gli svenimenti di mamma erano la conseguenza delle frequenti lite con papà, motivate dalla gelosia.
Mio padre aveva i capelli biondo cenere e gli occhi cerulei; non aveva una grande prestanza fisica, ma possedeva una grande dote: la simpatia.
L’ostinazione di mio padre a non volersi iscrivere al partito fascista gli procurò serie difficoltà nel campo lavorativo. L’idea che un qualunque ingranaggio potesse impedirgli di esprimere le sue idee gli procurava una vera e propria idiosincrasia per quella “tessera” e neanche i doveri verso la famiglia riuscirono a farlo desistere dai suoi principi. Per fortuna sua e nostra, aveva due sorelle che lavoravano come cassiere al teatro Quirino. Queste mie zie sopperivano, tempestivamente e generosamente, alle nostre necessità con aiuti di ogni genere, dal necessario al superfluo; adoravano il fratello, il più piccolo della famiglia e unico maschio, inoltre, essendo entrambe zitelle, diventammo l’unico scopo della loro vita.
Le stalle del nonno con i cavalli e le carrozzelle erano state vendute da tempo. Così, dopo alcuni ripensamenti e perplessità, le mie zie convennero che l’unica soluzione fosse quella di creare un lavoro indipendente a quello scavezzacollo del fratello.
Fu così che mio padre aprì un piccolo locale in Via San Saba, accanto all’ingresso principale della Basilica, a due passi da casa, iniziando una modesta attività commerciale di ricambi idraulici e articoli sanitari.
Spesso mia madre, all’ora del pranzo, non vedendo arrivare il marito, mi sollecitava perché lo andassi a chiamare e io, ogni volta, trovavo la saracinesca abbassata con su il cartello ”torno subito”.
Qualche amico di papà mi suggerì di bussare a quella saracinesca... che non si alzò mai.
Soltanto a distanza di anni seppi che mio padre aveva trasformato quel locale in una garçonniere, fornendola di una comoda branda: fallì qualche giorno prima che lo chiamassero alle armi.
Mia madre quando parlava di lui diceva che era un donnaiolo e quando io e Marisa diventammo “signorinelle”, nostra madre per mortificarci ci diceva:
“Diventerete ”omaiole” come vostro padre!”
Mia madre era una gran bella donna, capelli corvini, occhi nocciola scuri, incedere elegante, non possedeva la carica di simpatia del marito e la parola “omaiole” è stata la cosa più spiritosa che le abbia sentito dire.
Mamma baciava e abbracciava raramente noi figlie, non l’ho mai vista dare un bacio neanche a papà di cui era pazzamente innamorata, come se avesse pudore ad esternare i suoi sentimenti. Soltanto il suo sguardo, quando si posava su di noi, tradiva tutto il suo amore.
Questa apparente severità le conferiva quell’aria distinta e rassicurante che tanto ammiravo in lei: anche con il grembiule di casa, mia madre conservava l’aspetto di una gran signora, lo stesso di quando indossava l’abito buono per andare a teatro.
Mio padre, la domenica, preferiva stare con gli amici; così le nostre zie, nei giorni di festa, ci riservavano un palco tutto per noi. Margherita, l’anziana mascherina ci apriva persino la "barcaccia", palco riservato alle persone importanti.
Quando andavamo a teatro o a fare visita ai nonni sia materni che paterni, mamma vestiva noi figlie con estrema eleganza. Ricordo che indossavo un abitino dal colore celeste-cielo confezionato con una stoffa chiamata ”pelle d’angelo” con lo spallone ricamato a punto smoking e calzavo eleganti scarpette alla bebè di vernice nera. Mamma ricamava ogni nostro abito a punto smoking ed era orgogliosa nel vedere che la gente si voltava a guardare noi e i suoi ricami.
Le visite dei nonni fanno parte dei primi ricordi dell’infanzia.
Mia nonna paterna soffriva di un brutto male che l’aveva resa cieca. Era eternamente seduta su una sedia a rotelle; quando mi sentiva entrare voleva che mi avvicinassi, poi mi prendeva il viso fra le mani e cominciava ad accarezzarlo per indovinare la forma dei miei occhi, del naso, della bocca e quando arrivava alle guance si compiaceva di trovarle sempre più paffutelle.
Sentirmi palpare in quel modo mi spaventava un po’; non conoscendo ancora l’angoscia confondevo con la "paura" quella strana sensazione procuratami dalle mani della nonna.
Un giorno Anna, la donna di servizio delle mie zie, mi confidò, in tutta segretezza, che nonna aveva la ”sifilide” e mi fece giurare di non parlarne con nessuno; mi spiegò che era una cosa molto brutta e la gente non doveva saperlo.
Una mattina vidi mio padre annodarsi una cravatta nera e i suoi occhi riempirsi di lacrime.
Gli domandai perché piangesse, mi rispose che gli era entrato un moscerino nell’occhio, ma subito dopo mi disse che era morta la nonna. Volevo chiedergli se era morta di sifilide, ma ricordando il giuramento fatto a Anna, tacqui. L’idea che nonna fosse morta mi procurava uno strana sensazione di allegria. Mi rallegrava l’idea che non mi avrebbe più palpata. Mi avvicinai a mio padre e gli feci una carezza, ma non dissi una parola: malgrado i miei quattro anni, capii che non potevo dirgli che quella notizia mi aveva reso felice.

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