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Gli
abitanti della palazzina gialla, compresa mia madre, avevano
l’abitudine di fare la spesa restandosene comodamente
a casa. Facevano scendere dalle loro finestre un cestino colorato,
sempre accuratamente legato ad una cordicella e nel cestino
mettevano la lista delle cose da comprare aspettando che Spartaco,
il macellaio, o Amerigo, il droghiere, lo riempissero.
In questi cestini ci si metteva di tutto: dai libri di scuola,
all’etto di mortadella.
Ad una certa ora del pomeriggio, le persiane che davano sulla
piazza si spalancavano e gli allegri cestini scendevano lentamente
permettendo, a noi bambini, di prendere la merenda senza interrompere
un gioco: le madri erano abilissime a far sì che si
fermassero proprio all’altezza del nostro naso.
La "calata" dei cestini vivacizzava più volte,
durante l’arco della giornata, la facciata della palazzina
gialla; questi, nell’ora del ponentino, dondolavano
urtandosi l’un l’altro come danzando e seguitavano
a danzare e dondolare fino a quando le nostre madri non riavvolgevano
il gomitolo.
Una volta chiesi a mamma di calarmi un pupazzetto del presepe:
desideravo mostrarlo alle mie compagne; sfortunatamente la
corda gli scivolò dalle mani e il pupazzetto, nella
caduta, perse la testa: ricordo quell’episodio come
il mio primo dolore per le tante lacrime che versai.
Da mia madre ricevei la prima "grande ingiustizia"
un sette di maggio, giorno del suo compleanno.
In quel giorno, durante una passeggiata, vidi una gran bella
rosa "affacciata" alla ringhiera di un villino:
”Ecco cosa regalerò a mamma per il suo compleanno!”
Il pensiero di farle un regalo così importante mi fece
sentire improvvisamente grande.
Nel pomeriggio, mentre in casa fervevano i preparativi per
la consueta visita ai nonni, mi vestii più in fretta
degli altri e uscii rassicurando mia madre che non mi sarei
mossa dal portone. Ma appena fuori cominciai a correre giù
per le scalette verso il villino. Non corsi abbastanza perché
mia madre scese più velocemente di me e, non trovandomi,
cominciò a cercarmi per tutto il quartiere, chiedendo
a destra e a sinistra se qualcuno mi avesse vista. Quando
le corsi incontro con la rosa fra le dita, al posto di un
bacio, mi dette un manrovescio sulla mano. Guardai senza piangere
i profumati e delicati petali caduti ingiustamente sul marciapiede,
ma non riuscii a guardare mia madre negli occhi, né
le dissi mai che quella rosa l’avevo recisa per lei.
Da mio padre ricevetti il primo inganno quando Marisa si ammalò
di tifo.
Una sera, all’ora di cena, mio padre, invece del pigiama,
mi chiese d’indossare l’abito di “pelle
d’angelo” celeste-pallido che a me piaceva tanto
e di calzare le scarpette alla bebè di vernice nera;
mi disse che saremmo andati a passeggio ”sottoponte”.
Uscimmo che era già buio. Io stringevo forte la sua
mano e pensavo:
“Chissà come sarà “sottoponte”?
Deve essere un posto eccezionale altrimenti perché
dovremmo andarci a quest’ora!”
Percorremmo tutta Via Marmorata e, arrivati a Ponte Sublicio,
trovammo zia Anita e con lei scendemmo la gradina che porta
"sottoponte".
Il fiume, illuminato dalle luci dei lampioni, era tutto colorato.
Cominciai a correre e sentivo la "musica" dell’acqua
che correva insieme a me. Ero così incantata da quei
tanti mulinelli argentati dalla luna, da non accorgermi che
mio padre, approfittando della mia distrazione, era andato
via. Quando mi voltai, non vedendolo, compresi d’essere
stata ingannata.
Zia Annita mi venne incontro, pronta a consolarmi nel caso
avessi pianto, ma io non piansi: abbassai gli occhi, fissai
la punta delle belle scarpette lucide alla bebè e nel
vederle bagnate le strofinai sui calzini di filo bianco per
asciugarle un po’, poi sollevai lo sguardo, scoprii
il cielo e mi regalai la prima stella.
Da quella notte, per tre settimane, tanto durò la convalescenza
di mia sorella, obbligai mia zia a portarmi tutte le sere
"sottoponte" per regalarmi, ogni volta, una stella
diversa... dalla finestra non vedevo lo stesso cielo, non
c’erano le stesse stelle.
Mia zia, bassa e grassoccia, arrancava nel salire e scendere
le gradinate che portavano al fiume, ma la sua maggiore fatica
era corrermi dietro e, non potendomi raggiungere, mi gridava:
"Fermati, torna indietro, potresti scivolare nel fiume!"
Ma io fingevo di non sentirla e seguitavo a correre con lo
sguardo sempre fisso verso il cielo. Mi confondevo sempre
più con un mondo che mi faceva sentire libera: nel
cielo non c’erano inganni, non c’erano lacrime,
ma soltanto stelle.
***
*** ***
Solo
la mattina in cui il postino consegnò la raccomandata
che richiamava mio padre alle armi m'accorsi che era scoppiata
la guerra: in quell’occasione, mia madre ebbe lo svenimento
più lungo della sua vita. Oltretutto la famiglia era
"cresciuta" con la nascita di Rossana e questo si
sommava al pensiero della partenza di mio padre.
I nonni, sia materni che paterni, erano di origine romana;
niente beni al sole, né poderi, né campagne
e, per coloro che non avevano la possibilità di comprare
a “borsa nera”, la guerra significò “fame
nera”.
Se non avessimo avuto l’aiuto delle zie, con il misero
sussidio che davano a mia madre, avremmo avuto seri problemi
di sopravvivenza.
All’epoca frequentavo la scuola elementare ”Leopoldo
Franchetti” e nella mia classe c’era una bambina
di nome Adriana che aveva i genitori con poderi e orti. Nell’ora
di ricreazione, quando ciascuna di noi apriva il proprio cestino
per consumarne la merenda, Adriana mi si avvicinava per curiosare,
umiliandomi della pochezza della mia colazione, dopodiché
apriva il suo cestino e, sotto il mio naso, cominciava a sgranocchiare
biscotti, panini imbottiti ed ogni genere di primizie.
Adriana riuscì a farmi vergognare della mia povertà;
non aprii più il mio cestino e quando lei mi sollecitava
a farlo, m’inventavo che la sera precedente la mia cena
era stata così abbondante da togliermi l’appetito.
Ogni sera, prima di addormentarmi, avevo l’abitudine
di ripassare mentalmente tutti gli avvenimenti della giornata,
ma quando il pensiero si fermava su Adriana mi auguravo di
svegliarmi con un gran frebbrone che m’impedisse di
andare a scuola.
Una mattina non riuscii ad alzarmi e non per capriccio...
mi ammalai talmente tanto da ricevere l'’Estrema Unzione”
La prima volta che venne il sacerdote per darmi i Sacramenti,
mio padre, venuto in licenza, lo cacciò in malo modo,
urlandogli dietro che ero un angelo e che gli angeli vanno
in Paradiso, ma il prete, approfittando di un’assenza
di mio padre, tornò e mi diede l’Olio Santo.
Delirai per moltissimi giorni. I
medici uscivano dalla mia stanza scotendo sconsolatamente
la testa: non riuscivano a fare una diagnosi precisa e azzardavano
che la mia doveva essere una forma molto grave di malattia
infettiva, ma non si pronunciavano al riguardo.
Mentre mio padre consultava i medici, mia zia Annita consultava
Bice, una contadina analfabeta che, in stato di trance, scriveva
meglio di una letterata.
Le lettere che Bice scrisse, confermavano la gravità
del mio male, ma dicevano anche che lui, il piccolo Aurelio,
lo "spirito guida" che muoveva la sua mano, sarebbe
sceso nel mio letto a mezzanotte e m'avrebbe guarita, a patto
che qualcuno fosse andato a prendere una sua reliquia da posarmi
sul petto.
Il piccolo Aurelio è un martire bambino a cui fu tagliata
la gola durante la persecuzione contro i cristiani. Il suo
compito era quello di portare l’acqua nelle catacombe;
la sua immagine, riprodotta in cera a grandezza naturale,
è esposta in un sarcofago di cristallo nella basilica
di San Pietro in Vincoli (meglio conosciuta come la Basilica
del Mosé di Michelangelo, alle spalle del Colle Oppio):
è rivestita con una tunica di seta bianca bordata d’oro
e calza un paio di sandali da antico romano.
Mia zia chiese ed ottenne una reliquia del Santo e quando
a mezzanotte riaprii gli occhi e mi sedetti sul letto, tutti
gridarono al miracolo.
La prima persona che vidi al risveglio fu mio padre vestito
da soldato che piangeva accanto al mio letto. Tutti gli altri,
parenti ed amici, erano in ginocchio a recitare il rosario
in fondo alla stanza. Papà non recitava il rosario,
ma sono convinta che pregò più di tutti, raccomandandosi
al Padre Eterno come mai aveva fatto in vita sua.
Non tornai subito a scuola, la mia convalescenza fu lunga
e difficile; ero diventata una bambina a cui bisognava reinsegnare
anche a camminare. Mia sorella Marisa mi raccontò che
il mio delirio era durato quasi quaranta giorni e che le mie
unghie e le mie labbra era diventate livide e aggiunse che
mi guardava dalla porta socchiusa della stanza perché
non aveva il coraggio né di entrare né di toccarmi.
Nella lunga convalescenza fui confortata dalle assidue visite
della signorina Oddi, la mia maestra, e dal sorriso che le
illuminava il bel viso ovale, ornato da capelli lisci e sottili,
divisi al centro della nuca da una riga dritta e ben disegnata
e poi raccolti in un’unica treccina che lei si attorcigliava
tutt’attorno alla testa come fosse una piccola corona,
fermata da infinite e invisibile forcine. Era una delle pochissime
persone, se non l’unica, che anticipava ogni volta il
mio pensiero, senza bisogno di pormi domande. Prendeva la
mia mano e con la voce rotta dalle lacrime, mi chiamava teneramente
”Bibì”.
Da allora tutti mi chiamarono ”Bibì”.
Fu mio padre che mi portò a ringraziare il piccolo
Aurelio.
Una mattina di primavera papà mi prese in braccio,
ero ancora troppo debole per camminare, chiamò una
carrozzella e, insieme a zia Annita e a Bice, compimmo il
piccolo pellegrinaggio di ringraziamento per la grazia ricevuta.
Dopo tanto tempo mi scaldavo al sole! Mentre percorrevo la
via del Foro Traino, lo scalpitio degli zoccoli sui "sanpietrini"
batteva il tempo all’orchestra che s’era scatenata
nel mio cuore, la stessa che mi svegliò dal delirio
e in compagnia della "mia musica", fra le braccia
mio padre, entrai nella Basilica di San Pietro in Vincoli.
Quando m’inginocchiai davanti al piccolo Aurelio sia
zia Annita che Bice versarono fiumi di lacrime, al contrario
di mio padre che cercava di nascondere la sua commozione dietro
un paio di lenti scure, ma, prima di allontanarsi dal Santo,
lo vidi posare sul sarcofago quella "fede" che aveva
"negato alla Patria".
Da quel giorno Bice diventò una persona di famiglia;
nessuno osava più prendere una decisione senza prima
consultare il piccolo Aurelio.
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