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ADDIO,
CARO VECCHIO BUREAU!
Frequentavo
l’ultimo anno dell’Istituto Magistrale Fuà
Fusinato quando fui espulsa da quella scuola per condotta
immorale e insubordinazione.
Quale reato avevo commesso per meritare un castigo così
esemplare?
Durante l’ora di matematica, mentre la professoressa
scriveva la soluzione di un teorema alla lavagna, io scrivevo
una poesia d’amore; questo fu il mio reato d’immoralità,
mentre quello d’insubordinazione fu che insultai la
professoressa chiamandola "acida-zitella"…
parole che non ritrattai neanche davanti al consiglio disciplinare.
Rifiutai di reinserirmi nell’ambiente scolastico: rinunciai
al diploma e alla divisa da scolara.
Iniziai un corso di “contometrista” (attività
ormai in disuso) e vinsi un concorso alla TE.TI (oggi TELECOM)
indossando la divisa dell’impiegata.
Furono tempi spensierati! A soli diciassette anni avevo già
conquistato la mia indipendenza!
La mattina svolgevo il mio lavoro al bureau delle informazioni:
ero la prima "immagine" che la TE.TI offriva agli
utenti che entravano in quella sala!
I miei colleghi mi regalarono l’appellativo di “pantera
bionda” per il mio incedere felino e flessuoso, mentre
per le mie colleghe ero la loro “cherì”.
Il mio ingresso in quell’ufficio fu una ventata di giovinezza
che spazzò via l’aria grigia che vi regnava,
ma un triste giorno, il direttore commerciale mi convocò:
-Signorina, all’ingresso ci sono due bureau… ne
funziona soltanto uno, il suo… quello della sua collega
è pressoché inutile-
Non trasferì lei, ma trasferì me al primo piano.
Seppi poi che tra i vari reclami degli utenti, avevo inviato
al direttore anche quelli dove alcuni ammiratori mi scrivevano
frasi d'amore, apprezzamenti sul fisico e richieste del numero
telefonico.
Piansi nell’abbandonare quel "trono" e provai
l’umiliazione di chi viene esiliato.
I più delusi tra i miei ammiratori, con la complicità
degli uscieri, riuscivano a raggiungere il primo piano, interrompendo
il mio esilio forzato; alcuni di essi mi aspettavano nel salottino
privato, attiguo all’ufficio fatturazioni e, col pretesto
di voler sollecitare una pratica, mi regalavano rose rosse,
marron glassé, cioccolatini che io esibivo sulla mia
scrivania come trofei.
Negli anni d'ufficio come in quelli scolastici mi distinsi
per l'indisciplina.
Con il lavoro non ho mai avuto problemi, tanto che i colleghi
mi pregavano di ridurre la mia produzione.
La
mia popolarità, invece, aumentava nella misura in cui
aumentavano le note disciplinari motivate sia per le innumerevoli
telefonate che ricevevo dal telefono personale del capo-reparto,
sia per il mio ostinato rifiuto ad indossare il grembiule.
Col tempo mi resi conto che ero allergica alle divise, alle
stellette, ai “sissignore”, ma soprattutto a quei
regolamenti che tarpano le ali alla fantasia e limitano la
libertà del pensiero.
Una mattina fui convocata dal capo ufficio, il quale, con
tono paternalistico, mi disse:
-Signorina, lei non indossando il grembiule, oltre a trasgredire
il regolamento, evidenzia alcune sue forme che distraggono
i colleghi-
Poi aggiunse, con tono meno paternalistico:
-Ad essere sincero qualche volta distrae anche me!-
Mi feci confezionare un grembiulino nero, fermato alla vita
da un’alta cintura di vernice nera che valorizzava la
rotondità dei fianchi, ma che non trasgrediva alcun
regolamento… provavo il sottile piacere della provocazione!
Nel periodo che lavorai al bureau fui corteggiata da uomini
d'ogni tipo, ma soltanto due mi colpirono per la loro particolarità.
Il primo era un pilota. Lo notai quando mi chiese di aggiungere
sul "passi” “medaglia d’oro”
Era alto, capelli brizzolati, indossava un bel cappotto spinato
col bavero alzato, due grandi lenti scure gli coprivano parte
del viso lasciandogli scoperta solo la punta del naso che
appariva visibilmente bruciata.
Al primo colpo d’occhio lo trovai bellissimo per quel
suo fisico atletico e imponente: non riuscivo a distogliere
lo sguardo da lui!
Fu nel consegnargli il “passi” che m’accorsi
delle sue mani accartocciate al punto da non poter afferrare
il biglietto che gli stavo porgendo. Le lenti scure m’impedivano
di vedere i suoi occhi, sentivo però il suo sguardo
fisso su di me come se volesse catturare quel mio attimo di
disagio. Con aria apparentemente disinvolta posai sul palmo,
di quella che era stata una mano, il foglietto su cui avevo
accuratamente scritto “Capitano xxxxxx - medaglia d’oro”.
Lui appoggiò quello che restava dell’altra mano
sul dorso della mia con una lieve pressione che interpretai
come un “grazie”.
Non lo vidi uscire, né pensai più a lui fino
a quando un fattorino mi consegnò un fascio di rose
rosse con un biglietto. Rimasi confusa e turbata nel leggere
che il mittente era quel capitano. Ma rimasi anche un po’
delusa nel constatare che in quel biglietto non c’era
il minimo accenno ad un nostro eventuale incontro. La mia
delusione fu breve, dopo pochi minuti il telefono squillò
e una bella voce, che riconobbi immediatamente, disse:
-Ciao, sono Marco, vorrei invitarti a prendere un the, oggi
alle diciassette alla “Casina Valadier”…
verrai?-
La telefonata mi elettrizzò. Corsi dalla collega del
bureau accanto per dirle che l’eroe del giorno prima
si era innamorato di me. La mia amica che dell’eroe
aveva riportato un’impressione traumatizzante, mi rispose:
-Per me sei matta! Hai la vocazione della crocerossina? Ti
consiglio di cambiare lavoro!-
Alle diciassette precise, mi presentai alla Casina Valadier.
Marco mi raccontò di quando si lanciò col paracadute
dal suo aereo in fiamme e del romanzesco salvataggio in mare.
Ero affascinata dalle sue parole e dalla sua voce: era l’uomo
più interessante che avessi mai incontrato!
Dopo aver consumato il the, ci avviammo sotto braccio lungo
il viale delle Magnolie. Ma quando Marco si tolse i grandi
occhiali scuri mi sentii mancare. Vidi il suo volto devastato
dalle fiamme e due poveri occhi privi di palpebre: credei
di svenire.
Avevo solo l’alternativa della fuga che non considerai
affatto: non potevo umiliare un eroe, ma giurai a me stessa
che non l’avrei più rivisto.
Il giorno seguente le mie colleghe aspettavano impazienti
che io raccontassi "dell’incontro con l’Eroe”,
ma io non avevo voglia di parlarne e m’inventai che
mio padre era venuto a prendermi in ufficio, stroncando sul
nascere quello che sarebbe stato un grande amore.
Il secondo era un uomo bellissimo, sul tipo di Yul Brinner
(attore del momento) con la testa rasata come una palla da
biliardo. Aveva un solo braccio, l’altro lo aveva perduto
in un incidente.
Il motivo che mi fece scattare la molla della curiosità,
fu quando “Yul Brinner” mi raccontò che,
prima di perdere il braccio, aveva compiuto un salvataggio
strappando due bambini alle acque del Tevere il che gli fece
guadagnare la medaglia al “valor civile”
Aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare quasi ogni
giorno e una volta mi sussurrò con voce dal tono carico
di sensualità:
-Le gemme preziose sono sempre custodite e ben visibili dietro
dei cristalli e tu, in questo bureau, brilli come una gemma
d’inestimabile valore-
Quella frase riuscì a farmi battere violentemente il
cuore… mi stavo innamorando!
Una mattina, durante una delle sue solite visite, rincarò
la dose con una frase di sicuro effetto:
-Con un solo braccio, potrei stringerti contro il petto con
tale e tanta passione da mozzarti il fiato-
Il fiato me lo mozzò quando lo trovai un giorno fuori
l’ufficio ad attendermi. Era a bordo di una jeep, sulla
quale io, incautamente, salii… guidava come un pazzo!
Fu tanta la mia paura che, per moltissimo tempo, non presi
più in considerazione gli eroi.
Come succede spesso nei “fatti” amorosi, quando
meno te l’aspetti, incontri la persona giusta (o, per
lo meno, quella che ritieni tale) ed io incontrai un giovane,
bello e con tutte le carte in regola.
Il nostro fidanzamento durò solo quattro mesi.
Mio padre, minato da un male incurabile, espresse il desiderio
di voler accompagnare almeno una figlia all’altare.
Quando entrai in Chiesa al braccio di mio padre, più
che una sposa sembravo una bambina che si apprestava a ricevere
la prima comunione.
Baiocchetto non fece in tempo a vedere il nipote, ma sono
sicura che lo avrebbe accolto con queste parole:
“Finalmente!... Anche nella nostra famiglia c’è
qualcuno che farà la pipì contro il muro!”
***
*** ***
Ancora
oggi nella sede del partito si ricordano di lui. Ne parlano
come di un compagno leale di tante battaglie, ma non tutti
sanno che una sera (quando avvenne la scissione del partito
socialista a Palazzo Barberini) mio padre mi disse:
-Principessa mi hanno imbrogliato-
E alla mia domanda:
-Ci credi ancora nella libertà?-
Baiocchetto aggrottò le folte sopracciglia, non più
bionde, s’appoggiò alla traballante staccionata
che recintava il giardino e fissò la punta delle sue
scarpe, proprio come me quando ho voglia di piangere:
-In quella che nasce con noi ci credo ancora-
Rispose accompagnando le sue parole con la solita “scafetta”
che mi dava abitualmente sulla guancia, come se quella “scafetta”
dovesse rafforzare ed avvalorare ogni suo concetto.
-E ai sogni papà? A quelli ci credi ancora?-
E lui con tono rassicurante:
-Quelli non ti abbandonano mai! Senza i sogni nessuno potrebbe
amare la vita; non si possono comprare, ci devi credere...
come per l’amore-
E mi lasciò con i miei pensieri perché i suoi
amici lo stavano chiamando a gran voce; l’osservai mentre
si allontanava: il suo passo era quello di un uomo ormai stanco.
Oggi, quando penso a mio padre, lo rivedo col suo bell’abito
grigio perla e la camicia azzurra stirata di fresco mentre
volteggia sulle note del valzer “Non ti scordar di me”.
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