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A
distanza di anni, le battute di mio padre non sono state dimenticate.
I suoi versi in "romanesco" lo fecero diventare
un personaggio popolarissimo, sia a San Saba che a Campo de'
Fiori, altro antichissimo quartiere testimone della sua giovinezza.
Furono proprio gli amici di Campo de' Fiori che gli regalarono
il soprannome ”Baiocchetto” per ironizzare sul
suo cognome (il baiocco era una monetina romana d’argento
del valore di un soldo) da allora dimenticò di chiamarsi
Remo.
In una delle sue licenze mio padre si tolse la divisa, indossò
un abito borghese e, saputo del bombardamento al quartiere
San Lorenzo, uscì sperando di rintracciare alcuni suoi
amici... ritornò a casa senza il cappotto. Alle domande
di mia madre rispose che aveva incontrato un uomo che aveva
tanto freddo più di quanto ne avesse lui. Mamma brontolò
ricordandogli che era l’unico cappotto buono che aveva,
concludendo con la solita frase:
-Tu, per gli amici faresti qualunque cosa, li hai sempre amati
più della tua famiglia, se non ci fossero le tue sorelle
queste creature sarebbero già morte di fame!-
Mio padre non raccoglieva quelle provocazioni, in quei pochi
giorni di licenza preferiva non litigare, dava una scrollata
di spalle e andava a raggiungere i suoi amici, felici di festeggiare
il ritorno del compagno Baiocchetto.
Io, dalla finestra della cucina, osservavo la straordinaria
capacità di mio padre nel saper calamitare attorno
a sé così tanti amici, giovani e meno giovani
e, ogni volta, mi sentivo orgogliosa di essere sua figlia.
***
*** ***
Una
sera papà portò a casa tanta farina e tanto
guanciale e fu festa grande nella palazzina gialla: tutti
furono invitati a mangiare gli ”gnocchi alla tedesca”.
Mentre seguivo i preparativi pensavo:
“Chissà come saranno questi gnocchi alla tedesca!
Sempre meglio della brodaglia delle suore!"
E gli rimasi accanto per osservare.
Papà tagliò il guanciale in tanti piccoli dadini,
li buttò in un tegame insieme alla cipolla già
finemente affettata e quando il tutto raggiunse una giusta
rosolatura, vi aggiunse dei bei pomodori maturi; poi riempì
d’acqua un enorme pentolone, lo mise sul fuoco e (senza
mai perdere d’occhio il tegame col sugo) versò
in una capiente terrina tanta farina che amalgamò con
dell’acqua salata fino a ottenere una pastella morbida
e cremosa.
Soddisfatto della densità della pastella, scoperchiò
il pentolone e iniziò a depositarla nell’acqua
bollente, una cucchiaiata dietro l'altra. La pastella, a quel
contatto, affondava e si rapprendeva per tornare in superficie
sotto forma di tanti piccoli straccetti bianchi che papà
raccoglieva con la "schiumarola" per poi adagiarli
su un piatto da portata.
Io divoravo con gli occhi gli straccetti bianchi e aspettavo
il permesso di assaggiarne almeno uno; quando papà
tirò su l’ultimo, mentre si accingeva a cospargerli
di sugo, disse:
-Principessa (era il nome che mi dava nelle grandi occasioni)
questa sera papà ti farà assaggiare gli “gnocchi
alla tedesca”!-
Parlando di gnocchi alla tedesca rivedo mio padre nuovamente
alle prese con acqua e farina, ma, questa volta, per farne
della colla con la quale attaccare manifestini sovversivi
durante le ore notturne.
Spesso, quando papà era in licenza, venivo svegliata
da un sibilo proveniente da sotto la finestra. A quel sibilo
mio padre si alzava, entrava nella nostra stanza, prendeva
i manifestini accuratamente nascosti nella piccola libreria
poi, sempre in punta di piedi, andava in cucina e preparava
una piletta di colla con acqua e farina. Al secondo sibilo,
metteva in una tasca la piletta, nell’altra i manifestini
e, sempre in punta di piedi, andava verso la porta di casa,
l’apriva con religioso silenzio per poi riaccostarla
senza mai chiuderla: lo scatto della molla avrebbe svegliato
mia madre che lo avrebbe aggredito con la solita scenata di
gelosia, convinta che mio padre uscisse per recarsi ad un
convegno amoroso.
Quella ”verità” alla moglie non poteva
dirla! Mamma non avrebbe mai compreso come “un padre
di famiglia” poteva mettere a repentaglio la propria
libertà, rischiando persino la prigione. Per lei, quella
colla era sprecata, ”meglio farne gnocchi alla tedesca!”
questo avrebbe detto mia madre.
E questi pensieri mi tenevano sveglia fino a quando non riavvertivo
lo scatto della molla.
***
*** ***
L'’otto
settembre del '43, giorno in cui i granatieri, sostenuti da
civili, tentarono di opporsi alle truppe tedesche, per noi
abitanti dei quartieri San Saba, Testaccio, Ostiense, fu un
giorno di fuoco.
Gli scontri avvennero a Porta San Paolo, a un tiro di fucile
da Piazza Bernini.
In quelle ore drammatiche, donne, vecchi e bambini rimasero
segregati nelle loro case, ma gli spari e le grida di quel
giorno nessuno li ha più dimenticati.
Mio padre con alcuni compagni, si unì ai granatieri
di Sardegna; di molti di loro rimase solo la lapide alla memoria,
incastonata sulle mura Aureliane di fronte alla piramide Cestia.
***
*** ***
La
mia adolescenza la portò via la guerra.
Una guerra non scivola sulla tua pelle senza lasciare lacerazioni
e strappi.
Il tempo, forse, con sapienti mani, potrà un giorno
rammendare il tutto, come si fa con un arazzo di valore, ma
resterà, comunque, l’arazzo di un passato rammendato.
Ancora più difficile è lavare il cuore da tutte
le scorie che lo hanno intossicato, ma impossibile è
lavare gli occhi.
Guardando dalla finestra della cucina, era ben visibile il
villino dove abitava un signore chiamato ”console”.
Ogni volta che questi m’incontrava mi regalava un biscotto
e un pizzicotto sulla guancia; questi suoi gesti me lo fecero
considerare un amico.
Nel periodo della guerra, un pizzicotto e un biscotto sono
cose importanti.
Una mattina fui svegliata da urla e schiamazzi, corsi alla
finestra e vidi che le finestre del console “vomitavano”
mobili e masserizie. All’improvviso “uscì”
dalla finestra un pianoforte che si schiantò in mille
pezzi sul marciapiedi, emettendo un accordo così doloroso
da sembrarmi un lamento.
Appiccicata alla finestra, seguitavo a fissare con gli occhi
pieni di lacrime quel pianoforte scoperchiato, con le corde
spezzate e la tastiera, simile ad una bocca sdentata, che
chiedeva pietà da quel marciapiede dove l’odio
e l’ignoranza l'avevano schiantato.
Chiesi a mia madre il permesso di scendere: volevo chiudere
quella bocca che tanto dolore mi procurava; mi negò
il permesso e rimasi per ore a fissare quella bocca che chiedeva
aiuto, sperando che qualcuno la chiudesse per sempre. Nell’attesa,
pensavo...
... Pensava a tutte le lacrime che nessuno sente perché
quando cadono nei vicoli del mondo non fanno rumore: lacrime
di chi ha fame, lacrime di chi chiede giustizia, lacrime di
chi cerca pietà, lacrime di tutti quelli che non hanno
neanche la libertà di piangere.
Se avessi potuto raccogliere un po’ di quelle lacrime,
sparse nei vicoli del mondo, e lavare il cuore di quella gente!...
Nei giorni che seguirono la fine della guerra non era possibile
trovare un po’ di pietà, neanche a ”borsa
nera”.
***
*** ***
Con
l’avvento degli americani, cominciammo a nutrirci con
la “vegetina” e con i legumi in scatola. Quando
rividi il primo pane impastato con la farina bianca, l’addentai
come se quel pezzo di pane, tanto desiderato, fosse la più
prelibata delle leccornie e mi sembrò lontano il giorno
in cui mio padre barattò il suo orologio per regalarmi
una ciriolina nera e gommosa. Anche le minestre delle suore
erano soltanto un ricordo.
Il mio quartiere giorno dopo giorno stava tentando di tornare
alla normalità.
La liquidazione che il governo dette a mio padre gli servì
per comprarsi una vecchia motocicletta rossa con “sidecar”,
di gran moda negli anni quaranta.
Un pomeriggio, nel sentire il fischio del marito, mamma si
affacciò e rimase alquanto sorpresa nel vederlo trasformato
in centauro, con il viso quasi completamente coperto da un
paio di vistosissimi occhiali.
Papà le urlò:
-Moretta scendi! Ché Remo tuo ti porta a fare una bella
passeggiata!-
Quando Baiocchetto voleva farsi perdonare qualcosa chiamava
la moglie ”Moretta” e mamma ogni volta “andava
in brodo di giuggiole”
Anche noi figlie ci affacciammo e, vedendo la motocicletta,
scendemmo desiderose di farci un giro, ma la precedenza spettava
alla mamma che si rifiutò di sedersi all’amazzone
dietro il marito “Potrei cadere”, disse con aria
che non ammetteva repliche e si accomodò nel sidecar,
con l’eleganza con cui ci si siede in un salotto buono;
per l’occasione si era annodata un bel fazzoletto di
seta colorato sotto al mento, e aveva indossato l’abito
della domenica.
Quando papà vide la moglie comodamente seduta, s’aggiustò
ben bene gli occhiali, infilò un bel paio di guanti
da motociclista, ingranò la marcia, girò con
decisione la manetta del gas e partì fra l’ovazione
dei presenti. Noi figlie agitammo le braccia in segno di saluto,
fino a quando il bel bolide rosso non scomparve dietro la
curva del viale di San Saba.
Ritornarono dopo circa un’ora, mamma era sconvolta e
papà ci raccontò che sulla Via del Mare, quella
che conduce a Ostia, il sidecar si era misteriosamente sganciato
e che mamma si era preso un brutto spavento.
“Fortuna" aggiunse papà "che andavo
quasi a passo d’uomo per far godere a vostra madre il
paesaggio e inoltre la strada era deserta e pianeggiante,
altrimenti ora sareste orfane di madre”
Dopo qualche giorno dal misterioso distacco, mi venne il sospetto
che mio padre, dopo essersi assicurato che la moglie non corresse
alcun pericolo, ordì artatamente il tutto, per evitare
che “Moretta” gli chiedesse altre passeggiate.
Dopo pochi giorni dall’incidente correva voce che nel
sidecar di papà ci scorazzasse una bella bionda...
non era certo mia madre!
Ma lo sconvolgimento “storico” di mamma fu quando
Paola, nella sua innocenza, le raccontò che papà,
se qualche bella signora le chiedeva dov’era la madre,
le aveva insegnato di indicare il cielo con aria contrita.
***
*** ***
Io
e Marisa eravamo ormai delle signorinelle quando Baiocchetto
ci permise di entrare in società. Quella sera mio padre,
di buon umore, ci annunciò che ci avrebbe portato a
ballare.
Io indossai un vestitino di lanetta marrone, che mi conferiva
più l’aspetto di un’orfana che quello di
una signorinella che si appresta ad affrontare la sua prima
serata mondana. Marisa, invece, indossò un abitino
colorato, in carattere con la sua incontenibile gioia di vivere.
Mio padre col suo abito buono color grigio perla e la bella
camicia azzurra, stirata di fresco, non dimostrava affatto
i suoi quarantotto anni… eppure aveva sulle spalle già
due guerre.
Mentre mamma, compiaciuta, ci salutava dalla finestra con
Paola in braccio, noi cominciammo ad avviarci verso Viale
Giotto, sede del partito socialista.
Il nostro ingresso non passò inosservato e fu accolto
da un clamoroso applauso in onore del compagno Baiocchetto
e delle sue figlie.
La sala dove si svolgeva la festa mi si presentò in
tutto il suo squallore: le luci inadeguate e le sedie di legno
lucido, disposte a corona, mi ricordarono la sala d’aspetto
dell'ospedale dove andai a farmi medicare una brutta ferita
al braccio procuratami cadendo su un vetro. Il funzionamento
di un antidiluviano grammofono era affidato a un veterano
del partito che girava a mo' di girarrosto l’arrugginita
manovella, asciugandosi con un fazzoletto rosso il sudore
che, impietosamente, gli imperlava la fronte.
Baiocchetto, dopo i primi convenevoli, cercava, con aria indifferente,
di tenerci sotto la sua ala protettrice, lanciando occhiatacce
a quei giovanotti che, con la scusa di salutarlo, ci rivolgevano
dei complimenti. Uno di questi, dopo un attimo di esitazione
(la gelosia di Baiocchetto per le figlie era nota in tutto
il quartiere) invitò Marisa a ballare. Mentre mia sorella,
sulle note di “Bambina innamorata, si abbandonava languidamente
fra le braccia del suo cavaliere, Baiocchetto diventò
livido dalla rabbia e quando Marisa aderì un po’
troppo al corpo del suo cavaliere, papà prima contrasse
la mascella destra dal disappunto, poi si alzò, prese
per un braccio un vecchio compagno e lo consegnò tra
le braccia della figlia, stroncando quel ballo “galeotto”.
Da quel momento i ballerini vennero accuratamente setacciati
tra i più brutti, i più vecchi, i più
bassi e a volte anche fra i più maleodoranti.
Io trascorsi l’intera serata seduta accanto a mia sorella
Rossana e a tutti coloro che mi chiedevano di ballare rispondevo
che avevo una caviglia slogata… era molto più
divertente osservare! E nell’osservare, colsi l’attimo
fuggente in cui un audace giovane passò furtivamente
un biglietto a Marisa, approfittando del momento in cui Baiocchetto,
distratto da un prepotente seno che arrivava quasi all’altezza
del suo viso, si stava lasciando andare sulle dolci noti di
“Non ti scordar di me”.
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