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Voglia
di gerani rossi!...
L’odore
acre della vernice mi aveva irritato la gola; andai alla finestra
e, mentre ingoiavo sorsate d’aria primaverili, mi accorsi
che lo straccetto di cielo che proteggeva la piazza era ormai
carico di luce.
Dovevo arrivare al "baretto": avevo una gran voglia
di gustarmi una buona tazza di caffè… poi avrei
fatto un salto al mercatino per regalarmi tanti gerani rossi.
Dovevo dimenticare il suono lacerante dell’ambulanza
e l’inutile corsa verso l’ospedale.
Dovevo tentare di cancellare dalla mente la sagoma dell’automobile
nera e lucida che, a passo d’uomo, accompagnata da rintocchi
funebri, attraversò la piazza mentre riempivo il davanzale
di gerani rossi. La gente che mi vide a quella finestra confuse
quel mio gesto d’amore verso mia madre con un momento
di follia: lo lessi nei loro occhi quando entrai in chiesa,
affannata, appena in tempo per l’ultimo saluto.
Indossai, frettolosamente, una vecchia tuta azzurra, macchiata
di vernice, calzai i miei piedi nudi e infreddoliti con delle
scarpette da tennis, inforcai un paio di occhiali dalle grandi
lenti scure e, senza neanche guardarmi allo specchio, ravviai
con le dita i capelli, arruffandoli un po’. Scesi saltellando
i pochi gradini che mi separavano dal portoncino, ma prima
di varcarlo, mi girai in direzione della porta di casa e gridai:
-Ciao Louis… a presto!-
***
*** ***
Avevo
fra le braccia tanti gerani rossi, quando mi sedetti sulla
vecchia panchina.
Fiumi di parole devastavano ed accarezzavano cuore e mente…
dovevo tirarle fuori: solo così mi sarei acquietata.
Chiusi gli occhi per permettere al sole di baciarmi in pieno
viso, ma li riaprii subito: volevo guardarlo... come bruciava!
Meglio versare lacrime per la troppa luce che avere due occhi
asciutti che fissano "una pallina gialla" avrebbe
detto Bibì.
Abbandonai la panchina per tornare a casa; guardai la finestra,
affrettai il passo... qualcuno mi stava aspettando.
Nell’aprire la porta di casa sentii il telefono squillare
con insistenza, mi precipitai a rispondere, avevo bisogno
di un contatto con il mondo esterno, chiunque fosse all’altro
capo del filo era il benvenuto nella mia casa.
Fui piacevolemente sorpresa nell’udire la voce di Aldo,
fraterno amico da sempre, colui che, insieme alla mia amica
Gigì, condivise alcuni momenti "particolari"
della mia vita.
Quella telefonata mi fece fare un tuffo nel passato; ripensai
al mio amico Toni, al salotto di Gigì, alle mie rose
azzurre, a Renato e alla commedia che scrissi coinvolgendoli,
loro malgrado, in una storia dove io ero l’unica burattinaia.
Perché quella commedia era rimasta nel fondo di un
cassetto? Veramente non fu rappresentata per un banale contrattempo,
ma io, allora, ne fui stranamente felice: col tempo ne compresi
il perché.
La verità è che la scrissi un giorno in cui,
durante un corpo a corpo con la mia mente, cominciai ad avere
dei dubbi su quella che chiamavo "Fantasia". Sfidai
la mia mente, mettendola alle corde, perché mi aiutasse
a raccontare una storia coerente, raziocinante, ma dal sapore
di favola: proprio come deve fare una mente sana e equilibrata;
volevo darmi "dieci e lode", stupire e confondere,
con le insegne luminose della mia saggezza, le mie stesse
idee.
Nello scriverla ci buttai dentro: coerenza… follia…
genialità… intelligenza… ambiguità…
psicanalisi… dubbi… certezze… gioco…
professionalità… ma, soprattutto, Amore e ne
ottenni, miscelando il tutto, un coktail dall’aroma
intrigante, tessuto come una preziosa tela di ragno.
Una mattina accusai un dolore che premeva contro il petto,
un dolore che chiedeva di essere liberato, ed io lo liberai
iniziando a scrivere, sotto l’amato glicine, "Eternamente
insieme in un castello inglese".
Ero già a conoscenza della presenza di Louis nella
mia casa e quella mattina, riempito il primo foglio mi sorpresi
a dire, quasi per gioco e ad alta voce:
-Va bene Louis?... Posso continuare?-
Ed aspettai, sorseggiando l’ennesima tazzina di caffè,
i tre colpi di conferma dalla camera da letto; quando giunsero,
foglio dopo foglio, colpo dopo colpo, alle prime luci dell’alba,
sorseggiando caffè, scrissi la "mia commedia".
Ora dovevo ritrovare quel disegno e quella specie di copione,
scritto e buttato lì come cosa da dimenticare, ma dovevo,
soprattutto, lenire la crisi d’ansia che si stava impossessando
del mio petto.
Maestra nell’imbrogliare i miei amici, ma non abbastanza
abile da imbrogliare la mia vita, ero diventata una donna
forte e equilibrata. Era arrivato il momento di fugare ogni
dubbio, di smentire quegli alibi che mi avevano permesso di
mostrare contemporaneamente il dritto e il rovescio di ogni
cosa, asserire tutto e il contrario di tutto, con l’abilità
di un incallito illusionista… o, con quella commedia,
volevo solo giustificarmi dall’essere rimasta inspiegabilmente
attratta dal "peccaminoso" salotto di Gigì?
Era arrivato il momento di dare voce ai segreti regalati,
tanto tempo fa, a degli innocenti fogli bianchi?
Cominciai a cercare tra le pile di libri sparsi un po’
ovunque sul pavimento del salotto.
Trovai il disegno e alcuni fogli riempiti con una vecchia
macchina per scrivere, entrambi ben conservati in una cartellina
di plastica. Provai la gioia di quando ci si riappropria di
un inestimabile tesoro smarrito; dovevo mettere un po’
d’ordine nei miei pensieri; l’altro disordine,
tutto attorno, poteva attendere.
Staccai la cornetta del telefono. Qualunque interferenza dall’esterno
avrebbe interrotto la musica che la telefonata di Aldo mi
aveva scatenato dentro. Mi sedetti sull’unica poltrona
libera da pacchi e pacchetti, osservai lungamente la donna
e la bambina raffiguranti nel disegno e prima che l’emozione
m’impedisse di continuare, estrassi i fogli un po’
sgualciti, corretti a penna con calligrafia resa illeggibile
da qualche lacrima di troppo e iniziai a leggere.
ETERNAMENTE
INSIEME IN UN CASTELLO INGLESE
L'ambiente:
salotto stile inglese dalla tappezzeria di raso a righine
avorio e azzurro, un piccolo scrittoio con intarsi in madreperla,
un tavolo ovale dell’ottocento inglese ribaltabile con
le quattro sedie in velluto di lino color oro vecchio, un
lume di opalina azzurro poggiato su una piccola angoliera
e un lampadario di vetro di murano dai riflessi dorati; una
vetrata, lunga quasi tutta la parete, separa la stanza da
un terrazzo grande quasi come tutta la casa, trasformato,
da sapienti mani, in un rigoglioso giardino pensile. Sul divano
un uomo e una donna conversano animatamente; lei indossa un’aderente
tutina rosa, lui un abito grigio gessato, lei, capelli lunghi
e biondi, lui, capelli brizzolati dal taglio perfetto, lei,
non ancora trentenne, lui vicino ai sessanta.
Atto
primo - scena prima
-Fin
dal nostro primo incontro, hai preteso che ti chiamassi “zio
Toni” e ti considerassi come uno di famiglia. Devo dire
che, nei miei riguardi, sei sempre stato oltremodo rispettoso,
anche se è evidente l’interesse che nutri per
me come donna, ma io, di proposito, ho instaurato, fin dall’inizio,
un rapporto improntato esclusivamente sull’amicizia.
Ti voglio bene, ma tu, ad ogni nostro incontro, assumi toni
paternalistici, propinandomi prediche con contorno di consigli.
Prediligi esprimerti in modo anacronistico, con un linguaggio
aulico, intercalando il tuo dire con massime filosofiche,
sia in latino che in italiano, annaffiando il tutto con degli
aforismi. Onestamente a me ricordi la figura di Don Chischiotte
e non quella del burocrate quale sei!-
Toni, non ascoltava le cose che dicevo, ma inseguiva i suoi
pensieri, desideroso, unicamente, di tradurli in cascate di
parole:
-Pensavo di avere "comitato"
questa mattina in Direzione Generale, il che mi avrebbe "orbato"
per l’intera giornata dal piacere di vederti; fortunatamente
è stato rinviato di qualche ora, ed io ho approfittato
di questo "lasso" di tempo per venire a far visita
alla mia poetessa e informarmi della sua produzione letteraria
che, in questi giorni, mi sembra particolarmente ricca di
contenuti. Lascia che ti guardi!... Sei splendida mia cara…
splendida! Questo pallore "dona" luminosità
al tuo viso, conferendogli un aspetto romantico e tormentato...
vediamo chi mi ricordi... ma si!... Sei il ritratto della
Fornarina!-
Si alzò di scatto, come sospinto da una molla
e, con l’incedere di un indossatore, desideroso di valorizzare
al meglio l’impeccabile taglio del suo gessato, andò
verso la porta finestra e aprì la tenda, inondando
la stanza di luce; poi, fissandomi, come se volesse catturare
i miei pensieri, esclamò:
-Quale preoccupazione "alberga"
nel tuo cuore mia dolce e misteriosa Fornarina?-
Le sue metafore mi divertivano senza più provocare
in me l'"effetto stupore", e quando la nostra conversazione
si appiattiva per ripetitività io l'offrivo, ogni volta,
come "fioretto" a qualche anima santa del purgatorio:
-Temevo che questa mattina non mi paragonassi a nessuna delle
tue eroine. Come può un burocrate come te avere tanta
fantasia? Ma si... per quello che fate voi burocrati! In più
avete anche il vantaggio di percepire un congruo stipendio
a fine mese!-
Toni reagiva alla parola "burocrate" come al peggiore
degli insulti:
-Non dimenticare che sono, soprattutto,
un uomo d’affari... ho un affare tra le mani che se
va in porto, vedrai che bel regalo ti farà zio Toni!
Le trattative mi soffocano, sono oberato d’impegni,
di telefonate... relazioni ed ancora relazioni... e tu piccola
impertinente, hai il coraggio di definirmi burocrate!-
Interruppi l’ennesimo sermone:
-Ti anticipo che oggi non voglio prediche. Ora, se permetti,
mi assento un attimo per andarti a preparare una buona tazzina
di caffè; nel frattempo perché non vai ad ammirare
i miei fiori? Le rose azzurre stanno li li per sbocciare-
Ed uscii.
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