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UN UOMO QUALUNQUE
di Nadia Angelini

L’ultima luce del giorno filtrava attraverso le persiane socchiuse; di tanto in tanto un alito di vento agitava le tendine, un giorno candide e civettuole, ora dignitosamente pulite, di quella stanza che aveva conosciuto davvero molto della vita di Sergio. Ogni cosa conservava la sua collocazione da moltissimi anni; il tempo sembrava essersi fermato tra quelle mura. Sul comò c’era la fotografia incorniciata di Clara e lui; un’istantanea che risaliva ad un giorno lontano e felice: quello delle loro nozze. Sul comodino di destra l’immagine di Enrico Marco e Gigliola: i loro figli. Su quello di Sergio invece, troneggiava una radio che era lì forse da vent’anni e che, ora più che mai, svolgeva la sua mansione di gradevole compagnia. Poco più in là negli ultimi anni aveva trovato posto, seppur nel piccolo spazio rimasto libero, un’istantanea di sua moglie sorridente. L’uomo disteso sul letto distolse lo sguardo dal soffitto, diede una rapida occhiata al suo orologio da polso e dopo un attimo fu in piedi. Quel giorno il suo sonnellino pomeridiano si era protratto più a lungo del solito - pensò – e, tra sé e sé, incolpò l’incipiente primavera per quel languore che lo richiamava al riposo più che in altri periodi, Il trillo del telefono lo fece quasi sobbalzare. Con un sorriso speranzoso si accostò all’apparecchio e con voce volutamente allegra disse: “Pronto casa Savoldi, con chi parlo?
Dall’altro capo del filo gli giunse la voce di sua figlia: - “Papà sono io come stai? Volevo chiamarti già da alcuni giorni, ma sono sempre così presa da questi miei figli, che a volte dimentico anche di respirare” – continuò - e dalla sua voce traspariva una sincera sollecitudine verso suo padre dal quale però, a causa del lavoro di suo marito, era stata costretta ad allontanarsi fin dal giorno in cui si era sposata. Sergio la rassicurò dicendole che stava bene; le chiese notizie dei suoi nipoti e volle essere informato su ognuno dei tre. Infine parlò con Gigliola di lei e di Franco, suo marito, che aveva avuto seri problemi professionali che però adesso sembravano superati. Quando salutò sua figlia lo fece, come sempre, a malincuore sebbene con tanta gioia dentro per averla avuta, seppure idealmente, accanto per alcuni minuti. Deposta la cornetta andò verso la cucina; passò davanti alla stanza dei suoi ragazzi, o meglio a quella che era stata per trent’anni la loro, e si intristì vedendola muta e silenziosa. Allora mise mano alla maniglia e chiuse la porta. Una volta in cucina aprì il frigo, ne estrasse della frutta un piattino di verdura e una fetta di formaggio, pose tutto in un angolo del tavolo e si apprestò a prepararsi un caffè. Mentre lo sorseggiava si scoprì a riflettere che quella sensazione di piacevole euforia che stava provando era una delle poche gioie che la vita ancora gli offriva. Mentre questa considerazione, che non era del tutto felice né del tutto amara, gli serpeggiava in mente qualcosa dentro lo portò ad evadere, per quello che gli era possibile, dalle malinconie che, ben conoscendosi, sarebbero giunte di lì a poco.
Decise che avrebbe fatto quattro passi nella speranza di incontrare qualcuno dei suoi amici e trascorrere un’oretta parlando del più e del meno.
Coprì con un tovagliolo la sua cena, tornò in camera si vestì e, dopo una ravviata sommaria, indossò lo spolverino, si assicurò d’avere le chiavi di casa e uscì.
Quella fresca serata di maggio l’investì con i suoi mille effluvi; lo abbracciò come fosse una tenera amante venuta a consolare i suoi vecchi e molteplici affanni.
E la mente lo portò a giorni ben più lieti, ad anni che non potevano essere raggiunti se non in virtù di ricordi che, caparbiamente non si sbiadivano e che, sempre lo venivano a sorreggere quando la sua solitudine gli appariva più cupa e desolante che mai.
Ma la strada all’improvviso divenne ai suoi occhi, simile a una grande voragine che sembrava volesse inghiottirlo, la gente che gli passava accanto gli apparve tale a una folla di fantasmi senza occhi, senza voce né cuore.
Non ravvisava più il profumo che l’ aveva colto uscendo di casa e si disse che sarebbe stato meglio se fosse rientrato. Tra quelle mura antiche avrebbe potuto, forse, sentirsi meno solo.
La sua casa lo accolse come sempre da quattro anni avveniva: offrendogli ogni volta la bugiarda sensazione che da un momento all’altro avrebbe udito la voce di Clara a rimbrottarlo per la sua disattenzione.
Quel pensiero lo fece amaramente sorridere e realizzò che non si sarebbe mai più inquietata con lui, rimproverandolo per i suoi continui ritardi!
Subito si tolse il soprabito, lo appoggiò alla meno peggio sulla sedia dell’ingresso e andò direttamente in cucina.
Accese la televisione senza neppure ascoltare i suoni o le voci che ne provenivano; gli bastava rompere quel silenzio opprimente che lo circondava.
Apparecchiò una parte del tavolo che l’avrebbe ospitato per la cena, prese dalla credenza la bottiglia del vino e un bricco per l’acqua; riempì quest’ultimo fino all’orlo perché voleva avere l’impressione che non servisse solo per sé, poi si sedette e meccanicamente cominciò a mangiare.
Quando ebbe terminato pose le stoviglie nel lavabo, spense la televisione e girò, come per più di cinquant’anni aveva fatto ogni sera, la farfalla del contatore del gas, spense la luce ed andò in camera da letto.
Aspettò molto quella sera che il sonno giungesse: del resto –si rimproverò- non puoi dormire caro Sergio, lo hai fatto oggi troppo a lungo!
Accese la radio sul comodino e dopo un po’ le palpebre cominciarono ad appesantirsi; allora mentalmente augurò una buona nottata ai suoi figli, tutti lontani, mandò un bacio con la mano alla sua Clara che gli sorrideva dalla fotografia che aveva accanto e cedette al sonno. Si destò al mattino sempre alla solita ora: le sei.
Riusciva ancora a stupirsi del fatto che, sebbene non avesse più da molti anni impegni lavorativi, il suo cervello funzionasse ancora a mò di sveglia che lo rendeva desto ogni giorno alla stessa ora.
Considerò come mille altre volte, prima di allora aveva fatto, quanto sarebbe stato più conveniente per lui dormire un po’ di più e si rispose quello che sempre andava ripetendosi:- “Ho fatto tante scelte nella vita; a volte ho avuto ragione, altre le ho sbagliate però alcune, come questa, per esempio non possono essere compiute! La vita lo fa per noi e in questo caso è il mio inconscio a dettare legge.”
In altre occasioni fu il destino – pensò - una sorta di malefica magia che mi ha privato della donna con la quale ho diviso quasi tutta la mia vita. Clara non c’è più ed io sono solo!
Poi come ogni giorno si alzò dal letto per recarsi in cucina a preparare e bere quel caffè, il primo e il più gustoso della giornata che, sempre per moltissimi anni, aveva sorbito insieme alla sua donna. “La solitudine non può essere mai una scelta - si disse - o almeno non questo tipo di solitudine!”
Mai! Mai ho desiderato questa totale assenza di voci, di suoni e di emozioni che accompagnano e accompagneranno la mia vita fino al mio ultimo giorno. No! Nessun essere umano può, per sua volontà, anelare a questo.
Così, dopo aver bevuto il suo caffè, si rimise a letto e con mani tremanti di vecchiezza e nostalgia, accarezzò il cuscino accanto a sé e per un attimo provò ancora un anelito di felicità.
Gli parve di avere tra le mani il volto della sua compagna, sentì nel petto quel nodo d’emozione che sempre le procurava la vicinanza di Clara e, subito dopo, realizzata l’ingannevole percezione ne pianse.
Pianse per quella casa muta, per quel posto vuoto accanto a sé, per quel suo cuore malandato di malattia e solitudine, per la sua vita disperatamente assurda che, malgrado tutto, doveva ancora vivere e per i suoi figli così lontani amati.
Non provò vergogna per quelle lacrime, che lo resero nudo dinanzi ai suoi stessi occhi. Avvertì, invece, d’essere pervaso di rabbia contro quel destino che aveva scelto per lui la più temibile delle umane condanne: questa ultima parte di vita che, inevitabilmente, avrebbe vissuto così.
Perché? - si chiese - Perché lei e non io? Clara sarebbe sicuramente stata in grado, più di me, a riorganizzare la sua vita dopo avermi perduto – pensò - Poi si ritrovò a ricordare un altro periodo; quello in cui lui era stato molto malato e sua moglie parve essere annientata dal terrore di perderlo e considerando ciò riuscì, almeno in parte, a dare un senso, a questa scelta di Dio.
Sono un vecchio egoista - disse a se stesso - non avrei voluto mai per mia moglie questa sofferenza: forse lei non avrebbe saputo accettarla.
Ma non esiste al mondo un luogo dove curare la spasmodica attesa del nulla, non c’e ricordo che possa appagare, se non momentaneamente, questa sete di amore che ha l’animo. Non c’è rifugio alla sorda malinconia, che opprime più del dolore fisico, non c’è rimedio alla cupa aspettativa di ogni giorno che, per bene che vada, sa offrirti soltanto un altro ieri!
Ho forse bisogno di rattristarmi ancor più? - si ritrovò a riflettere Sergio - tra sé e sé.
Forse che la solita ingrata nostalgia di sempre, non è già abbastanza avvilente? - si disse ancora -
Guardò fuori della finestra e si trovò ad osservare il solito via vai di ogni giorno sulla strada; gli giunsero suoni e voci consueti e provò, momentaneamente, sollievo all’oppressione che si era impadronita di lui poco prima.
Ecco… pensò forse, se decidessi di isolarmi meno, potrei sentirmi più sereno.
Così decise di svolgere qualche compito che, per pigrizia, aveva rimandato. Forse - si disse - potrebbe essere il modo più appropriato per far sì che quel giorno, che comunque doveva trascorrere, gli tornasse quantomeno utile.
Si preparò ed uscì di casa.

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