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IV
All’indomani
il trambusto tipico delle mattinate in ospedale costrinse
Denise ad una sveglia anticipata. Le curarono la ferita, cambiarono
le lenzuola, riordinarono la camera e lei supina con il ventre
appena ricucito, osservava l’andirivieni ancora con
la mente intorbidata..
A metà mattina una pediatra entrò con impeto
nella camera chiedendo della signora Giglioli.
“Sono io” si affrettò a rispondere Denise
alzando il busto per mostrarsi meglio in quello stanzone che
ospitava diverse pazienti. La dottoressa le si avvicinò,
si mise a sedere sul letto e rimase a fissarla alcuni istanti.
Nella camera dilagò il silenzio assoluto. Un’infermiera
appostandosi al letto accanto, andava sistemando lentamente
e ripetutamente le pieghe delle lenzuola; le altre degenti,
coricate con la testa rialzata da doppio cuscino, stavano,
come per ordine di un regista, con occhi socchiusi e orecchie
ben aperte. Un uditorio perfetto. Anche la puerpera si predispose
all’ascolto con uno smagliante sorriso, certa che la
dottoressa le avrebbe spiegato come allattare il bambino,
quanto bisogna lasciarlo dormire, come cambiare i pannolini,
ecc. Quante cose doveva ancora imparare! Se ne rese conto
in quell’istante.
“Signora Giglioli, buongiorno, sono la dottoressa Trialia.
Suo figlio sta bene, pesa tre chili, è in perfetta
salute.”
Denise sorrideva compiaciuta.
“Devo però informarla” continuò
la pediatra “che il bambino presenta una piccola malformazione,
cosa peraltro rimediabile, non si deve assolutamente preoccupare.
Si tratta di schisi del labbro, quello che comunemente si
dice labbro leporino, ma intenda bene, niente di grave, dovrà
solo essere sottoposto nel tempo a piccoli interventi chirurgici,
andrà tutto a posto. Ha mai visto lei persone con questo
problema? no, perché si risolve. Bla, bla, bla….”
Con gli occhi sbarrati, sorda ad ogni successiva parola, Denise
rimase impietrita. Nessuno stava parlandole, non c’era
nessuno vicino al suo letto, nessuno. La donna col camice
bianco le strinse la mano, girò le spalle e si allontanò.
Lei non se ne accorse né captò la tenera commiserazione
che aveva impregnato l’aria di quella stanza, poiché
tutte le altre degenti già conoscevano il problema
della loro compagna di camera.
Dopo molti minuti di ebetismo, Denise si scosse e si alzò
per uscire dalla stanza. Fatti pochi passi, fu assalita da
un pianto sommesso e disperato, dapprima si piegò su
se stessa poi si nascose fra la porta aperta e il muro. Una
donna andò a sorreggerla e la riportò a letto.
Allorché prese coscienza del suo angosciante annaspare,
si impose la calma e cercò di valutare razionalmente
la situazione. Era in preda ad una terribile confusione per
questo evento non considerato né minimamente ipotizzato.
Cercò di convincersi che non doveva drammatizzare:
si trattava di una piccola malformazione del labbro, un puro
fatto estetico, per il resto il bambino era sano. La ragione,
tuttavia, non sempre riesce a vincere contro la forza dei
sentimenti e Denise cadde in un torpore frammisto ad un indefinibile
tormento.
Nel primo pomeriggio arrivò Bruno. L’uomo si
accostò al letto con il viso contristato e rimase in
silenzio; sapeva che la moglie era stata informata; era tutto
organizzato. Denise lo guardò con lapidaria dignità.
Aveva una pallore inusuale e due solchi convergenti formavano
con le sopracciglia lo schizzo di un gabbiano in volo. Mai
tanta tristezza era parsa così contenuta. Nessuno dei
due voleva trasferire sull’altro il proprio tormento,
ma entrambi offrivano una scena patetica. Affrontarono il
problema a monosillabi; lui fingeva di dare minimo rilievo
alla cosa. Poi sussurrò:
“Non vuoi vederlo?”
“Vederlo? vederlo…. ” balbettò lei
confusa.
L’inconscio e terapeutico distacco dalla realtà
le aveva fatto perdere ogni certezza. Fece fatica a capire
che tutto ciò di cui si parlava era riferito a suo
figlio. No, non voleva vederlo, preferiva rimanere in quel
limbo senz’altro rischiare. Bruno non demorse. mise
in atto le sue doti di convincimento e alla fine Denise, a
fatica, assentì. L’uomo si spogliò del
suo ombroso aspetto e si allontanò gioiosamente. Denise
rimase ad aspettare.
Poco dopo entrò nella stanza un’infermiera con
un neonato in braccio e si mise ai piedi del letto. Una coperta
attorcigliata a cono avvolgeva il piccolo; spuntavano appena
la testa e le manine; le dita divaricate erano rivolte verso
l’alto, come quando un disperato alza le braccia per
chiedere più tenacemente l’aiuto di Dio. Il viso,
particolarmente arrossato, mostrava la malformazione in tutta
la sua crudezza e gravità. Sua madre lo guardò
con occhi incupiti, mentre Bruno la incitava a prenderlo in
braccio. Raggelata da quella realtà, non fece una mossa
ed abbassò lo sguardo. Nella camera regnava il silenzio
più profondo. Ancora una volta le altre pazienti osservarono
la scena, attonite. Avrebbero voluto far quadrato attorno
a quella coppia che stava vivendo un difficile momento, ma
nessuno fiatò. L’infermiera, come una polena,
continuava a stare in piedi davanti al letto con quell’esserino
in braccio, statica e sorridente. Denise alzò e abbassò
più volte lo sguardo. Ancora una volta l’ombra
del silenzio avvolse i presenti finché la voce di Bruno
la ruppe:
“Non vuoi prendere fra le braccia il tuo bambino?”
Denise si scosse e corrucciando la fronte disse un secco no.
Il marito insistette: “E’ il tuo bambino….”
“Il mio bambino? Il mio bambino?” e non si mosse.
Dopo pochi istanti, quel piccolo, che con le manine protese
pareva le dicesse “mamma, sono qui”, la inondò
di tenerezza. Allungò le braccia e lo strinse a sé.
V
Il
primario del reparto di ostetricia convocò Denise nel
suo ambulatorio per parlare di Bibien. La donna aveva un’aria
stravolta che al medico non sfuggì, quindi iniziò
con alcuni convenevoli poi le disse:
“Abbiamo richiesto una visita specialistica del prof.essor
Latini della chirurgia plastica, così potrà
essere informata su tutto quanto riguarda suo figlio.”
“La ringrazio.”
“Non potrà allattarlo, lo sa? Questi bambini
non riescono a succhiare e per nutrirli bisogna trovare il
sistema migliore. Con la schisi del palato, quello che entra
dalla bocca può uscire dal naso.”
Poi fece una pausa e spostò alcune scatole di medicinali
dalla destra alla sinistra della scrivania, quindi continuò:
“Dovrebbe somministrargli il latte materno. E’
meglio. Le forniremo un tiralatte elettrico. Se lo desidera
potrà fare tutto direttamente nella nursery, così
eviteremo....” e con un gesti espressivi accennò
alla curiosità della gente. Denise stava seduta davanti
all’omone dal camice bianco e lo guardava con sguardo
opaco. Non avrebbe voluto lasciar trapelare nulla del suo
animo sofferente, invece tutto tradiva gli intenti: la gestualità,
la scarsa voglia di parlare, il pallore, il frequente inumidirsi
degli occhi. Lo ascoltò senza dire altro che “grazie,
grazie”, poi e con fare lento si accomiatò da
lui
All’ora della poppata, sola fra i lettini dei neonati,
poté guardare attentamente suo figlio e compararlo
agli altri. Quel brutto anatroccolo fra tanti neonati, accartocciava
il cuore. Quanto erano belli quei piccoli! Perché a
suo figlio era invece toccata quella sorte! Perché?
Aveva trascorso un periodo di gravidanza normale, non aveva
sofferto di alcuna malattia, né prima né durante!
E poi, santo cielo, qual’era la causa? Mai alcun familiare,
considerato a largo raggio, era nato con anomalie. Il rovello
però si dissolse quando, tenendo fra le braccia quell’esserino,
ebbe la sensazione che i due corpi si incollassero in una
percettibile eufonica assonanza fisiologica.
Mentre gustava questa prima ed intensa tenerezza materna,
entrò nella nursery una puericultrice dal volto noto.
Abitava nel suo stesso quartiere. Non si salutavano, ma da
bambine avevano frequentato insieme le lezioni di catechismo.
Vedendola, Denise provò un senso di sollievo. In un
momento tribolato come quello, un viso conosciuto all’interno
del reparto ospedaliero poteva tornare utile. Le sorrise per
incoraggiare la conversazione, poi disse timidamente:
“Noi ci conosciamo vero?”
L’altra la investì con protervia.
“Cosa fa lei qui! non sa che è vietato entrare
nella nursery!”
A quell’inaspettato attacco la signora Giglioli riuscì
solo a balbettare:
“Veramente…, sono stata autorizzata dal medico
responsabile…”
“Lei, entra qui perché si vergogna del suo bambino;
da ora in poi lo porteremo in camera come tutti gli altri”.
Denise rimase di stucco. L’affermazione - lei si vergogna
del suo bambino – l’aveva profondamente offesa.
Quello che doveva essere un atteggiamento di riserbo, le veniva
rimproverato come la peggiore meschinità: vergognarsi
del proprio figlio. Avrebbe voluto reagire con grinta, ma
la tristezza di quei giorni l’aveva resa moscia. L’infermiera
parlava muovendosi qua e là senza mostrare la faccia.
Denise la seguiva con lo sguardo, sgomenta, poi, ripresasi,
rispose:
“Se la sua sensibilità non le permette di capire,
può rivolgersi direttamente ai suoi superiori.”
La reazione della paziente indignò la puericultrice.
La rabbia non poté modificare di molto la congenita
sgradevolezza del viso, ma la fece uscire fulmineamente in
direzione dell’ambulatorio del suo capo. Lo investì
con furore.
“La signora Giglioli entra nella nursery ad allattare
forse perché si vergogna di suo figlio?” e proseguì
con altre considerazioni.
Il medico la zittì con poco garbo e la allontanò
dalla stanza, poi, guardò con tenerezza la sua protetta.
“Non si preoccupi ora è tutto a posto, continui
ad entrare come d’accordo”.
Si alzò e le strinse la mano in segno di amicizia.
Denise si accomiatò a testa bassa, smagata nelle sue
prime vere emozioni materne.
VI
Quello
stesso giorno, mamma Denise ricevette la visita di Ginetta,
una vicina di casa con la quale era legata anche da buona
amicizia. Ginetta aveva già superato i sessant’anni,
ma a ragione del suo corpo longilineo e del temperamento dinamico
girava qua e là come una trottola ed era onnipresente.
Ci teneva a mantenere l’amicizia con la signora Giglioli,
le regalava spesso qualche specialità della sua cucina
e con l’occasione si intratteneva in amene disquisizioni
sul comportamento degli altri.
Le due donne, passeggiando lungo i corridoi del reparto, s’imbatterono
in un crocchio di persone accalcate fuori dalla nursery. Un’incaricata
all’interno mostrava attraverso il vetro ciascun bambino
a seconda del numero che man mano le segnalavano. Denise e
l’amica rimasero un po’ discoste fissando l’attenzione
su quella parata di neonati così uguali e così
diversi. Ad un tratto Ginetta propose:
“Chiediamo di farci vedere anche tuo figlio?”
“Va bene, dalle il numero”, rispose Denise.
Si fecero spazio per mettersi in prima fila e sillabarono
il numero di Bibien indicando il suo lettino. L’infermiera
si allontanò dall’uscio e ritornò con
il piccolo tra le mani. Lo innalzò da dietro il vetro
come il sacerdote alza il calice al momento dell’offertorio.
Denise ebbe dapprima un fremito di tenerezza, poi, un’occhiata
inquisitoria attorno a lei le permise di vedere bocche aperte
e sguardi attoniti. Un stato di imbarazzo le infuocò
il viso. Cosa aveva fatto? Per quale ragione sottoponeva alla
curiosità degli altri la malformazione di suo figlio?
Voleva scoprire se veramente non si vergognasse?
Bibien con la testa penzoloni non si era neppure svegliato,
quindi venne riposto nel lettino e gli astanti si dispersero
nei meandri della corsia.
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