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XXVIII
Con
lo sguardo perso fra due antiche poltrone da dentista, rinchiuse
in una protezione di cristallo come la Pietà in San
Pietro, Denise immaginava quei poveri cristi abbandonati su
di esse che, senza anestesia, si facevano cavare denti. Pedali
e manovelle collegati a congegni antidiluviani rimandavano
ad antichi e nefandi supplizi. Anche oggi il dentista è
una tortura fisica ed economica pensava la donna seduta nel
salottino del dottor. Volpon e Bibien era ormai da anni una
vittima sacrificale: sempre con le mani di qualcuno che rimaneggia
dentro la sua bocca, per non parlare del dolore fisico.
Per distogliersi da questi ragionamenti, prese un settimanale,
uno fra i tanti appoggiati sul tavolino della saletta. Scorse
con curiosità la serie fotografica di personaggi a
lei più o meno noti, liberando un’incontenibile
fantasia. Sovrappose ai visi delle coppie famose ripresi in
tenero atteggiamento, due altri visi, abbandonandosi a voli
pindarici mediante questa segreta iconografia. Guardava senza
vedere. Chi le poteva negare il beneficio dell’immaginazione?
Nessuno al mondo avrebbe potuto ostacolare lo scorrere di
pensieri fantastici nei quali crogiolarsi. Fuori può
succedere di tutto, ma l‘accesso a quel rifugio segreto
è unicamente tuo.
Venne distratta dal brontolio della voce del dottor Volpon.
“Te devi lavare bene i denti, porco d’un can,
altrimenti te me rovini tutto il mio lavoro. Te ghet capio?”
Denise li raggiunse nel gabinetto dentistico.
“Signora gli faccia lavare bene i denti a questo zucon
de zucon. L’è grande e grosso e non capisce queste
cose.”
“Glieli devo lavare io i denti? Lui sa che lo deve fare!”
Anche il dottor Volpon era grande e grosso. Amava ostentare
un atteggiamento brusco e il suo lessico era spesso frammisto
ad espressioni del suo dialetto, tuttavia il tono caldo della
voce addolciva ogni parola rendendo piacevole il suo discorrere.
Aveva un animo gentile e soprattutto una competenza al di
sopra della media.
Un raggio di sole illuminava le spalle del dentista in posizione
gibbosa sul giovane paziente. Sembrava il fascio di luce che
in teatro illumina il personaggio del monologo lasciando nell’oscurità
la restante scenografia. Volpon parlava a Bibien e gli si
rivolgeva con una tenerezza speciale e lo manipolava come
se avesse fra le mani un oggetto prezioso. Quella era una
scena da mettere sotto vetro! Denise se ne accorgeva solo
ora. Vicino a su figlio, quasi abbracciati in quell’obbligato
contatto, Bibien si sentiva nelle mani di un padre amoroso
e il dolore fisico veniva anestetizzato da quel calore umano
che tanto gli mancava. Era grande il Dottor Volpon e Denise
lo guardava con rispetto e ammirazione e lo stimava. Avrebbe
voluto dirgli grazie ed abbracciarlo, ma si trattenne e si
sedette in un angolo. Non ci sono buoni o cattivi ospedali,
ma buoni o meno buoni uomini e non solo sotto il profilo professionale!
Questo forse era il migliore medico che aveva incontrato.
Aveva cercato un padre a ore per suo figlio: ma molte erano
le persone che si prendevano a cuore Bibien. Ora c’era
Volpon, ma giorno dopo giorno erano gli zii, alcuni professori,
od altri che con certosina pazienza lo aiutavano a trasformare
tutta la sua ribellione in sapiente conoscenza di se stesso.
A utilizzare la sofferenza per guardare la vita in modo più
maturo e consapevole, e soprattutto che lo coprivano di affetto.
Bibien non aveva un solo padre, ma tanti padri che lo amavano.
Denise capì che non doveva continuare nella sua ricerca
spasmodica. Non era necessario. molti altri avevano scelto
Bibien come similfiglio.
XXIX
I
tre boy scout intravidero le ragazze da lontano. Avrebbero
fornito prova delle loro già note capacità,
per aver scoperto un luogo solitario, da trasformare in un
ritrovo segreto, in un angolo magico dove esprimere la propria
adolescenziale dimensione. Si erano fissati appuntamento la
domenica precedente dopo il campo scout, per incontrarsi il
martedì successivo, alle sedici, in Via Beffuri, davanti
alle vecchie scuole.
“Arrivano, eccole!”
Gli amici si mostrarono felici di rivedersi.
Daniele, scopritore dell’isola misteriosa e quindi fiero
protagonista dell’incontro, invitò gli altri
ad entrare.
“Saliamo. Venite.”
“E se ci vede qualcuno?” obiettò timidamente
Chiara.
“Chi vuoi che ci veda; non fare la fifona!” rispose
Daniele con aria sicura.
“Io ho un po’ paura. Salite prima voi”,
incalzò quindi Sara, ancora più titubante della
compagna.
Bibien, che non aveva ancora visitato il posto e diffidava
delle scoperte di Daniele, fece la sua proposta:
“OK, facciamo così: saliamo prima noi tre, poi
se tutto è a posto, vi facciamo un cenno dalla finestra
e ci raggiungete.”
I maschi si allontanarono di soppiatto, entrarono nel fatiscente
edificio e intrapresero con cautela la salita nel sottotetto,
per raggiungere il posto tanto declamato da Daniele.
La scuola abbandonata da un buon numero d’anni, si presentava
in precarie condizioni strutturali. I vetri alle finestre
erano quasi tutti infranti e, fra le tegole e le travi, si
aprivano ampi squarci. Sul pavimento erano sparse cartacce
residue di vecchi archivi e materiale edilizio frantumato.
La gloriosa scuola Beltramelli, che aveva annoverato tra i
suoi alunni nomi famosi, dormicchiava in assetto di disperata
tranquillità, come un clochard afflosciato tra cartoni
e pezze bisunte. Il luogo non era certo accogliente, ma ai
ragazzi pareva l’ideale per potersi negare a tutto il
resto dell’umanità.
“Che posto ganzo, facciamo salire le ragazze”
consigliò Andrea eccitato.
“No, aspetta. Guarda quante cartacce Ho qui un accendino,
bruciamole addirittura.”
In effetti, il pavimento non vedeva da anni una scopa, ma
gli scout, abituati a ripulire i luoghi dove allestivano gli
accampamenti, non si persero d’animo. Raccattarono velocemente
il più grosso, fecero un mucchietto e appiccarono il
fuoco. Dalle case dirimpetto qualcuno si accorse che nella
scuola Beltramelli c’era gente; addirittura si vedeva
uscire del fumo dal sottotetto. Chiamarono il 113.
Una pattuglia di vigili urbani, transitava in quel momento
sulla strada. Scorse il fumo fuoriuscire dal solaio della
scuola dimessa; si mise in allarme e chiamò il comando:
“Pronto, qui la pattuglia Giacobini e Olivati. Vediamo
uscire del fumo dall’ex scuola Beltramelli, proprio
sotto il tetto.”
“Saranno i soliti extracomunitari. Salite a controllare.
Prudenza, vi raccomando!” rispose qualcuno dall’altra
parte.
Le due guardie impugnarono le rispettive pistole e iniziarono
a salire con circospezione.
“Chi c’è? Chi va là?” non
si udiva alcun rumore.
Seguitarono ad andare verso l’alto intimando a chiunque
fosse di mostrarsi e, ispezionando i vani prospicienti le
scale, raggiunsero il terzo piano.
I tre esploratori che avevano spiato, seminascosti, i movimenti
dei vigili, quando li videro con le armi in pugno, presi da
grande spavento, cercarono una via di fuga. Non trovarono
altre uscite. Si sentirono braccati. Provvidenzialmente un
armadio abbandonato in tutte le operazioni di trasloco, sembrò
offrire loro un buon nascondiglio. Concordarono di nascondersi
là dentro. Andrea e Daniele, come due fuscelli, trovarono
subito spazio all’interno del rudere di legno, ma la
grossa corporatura di Bibien non entrava neppure a comprimerla.
Impossibilitato a nascondersi e, facendo di necessità
virtù, si risolse ad andare incontro al nemico.
“In fondo perché dobbiamo nasconderci, non abbiamo
fatto nulla di male!” si disse Bibien
Nell’armadio gli altri due amici stavano col fiato sospeso.
Non sapevano che fare.
“Alto là! Chi siete?” intimarono i vigili
con l’arma puntata.
“Siamo tre ragazzi” disse Bibien andando loro
incontro. Frattanto anche gli altri due uscirono allo scoperto.
“Che cosa fate qui?”
“Niente.”
“Come niente? Perché siete saliti? Chi vi ha
autorizzati?”
I ragazzi tacquero confusi. Una delle due guardie spinse Bibien
contro il muro e lo prese a calci. Non aveva scelto a caso.
Dei tre era il più grande e grosso e portava i capelli
più lunghi degli altri. Andrea e Daniele, con l’aspetto
di passerotti implumi, piangevano. Bibien indossava la sua
maschera di uomo duro.
Sulla strada una sirena smise di suonare davanti al il cancello
della scuola e la gazzella della polizia s’impennò
fra il brulicame di gente. Un poliziotto, sceso dall’autovettura,
chiese cosa stesse succedendo:
“Qualcuno si è intrufolato nella scuola”
disse un vecchietto che si era appostato da poco.
“Sono extracomunitari” sostenne un altro.
“No, drogati, sono drogati” dichiarò un
terzo dalla voce chioccia.
Le amiche dei piccoli esploratori, appiccicate all’ingresso,
abbandonato ogni intento mimetico, presero coraggio e dissero
piagnucolando:
“Ci sono i nostri amici là dentro, siamo tutti
scout, volevano esplorare il posto.”
“Quanti anni hanno?”
“Abbiamo tutti quattordici anni”
Il volto del poliziotto si rilassò, anche se non accennò
ad alcun sorriso.
“Sono saliti i vigili su.” disse una donna. “sono
saliti con la pistola in mano.”
“Con la pistola per tre ragazzini?” esclamò
quasi divertito l’agente.
Nel frattempo il capannello di gente si era ingrossato, e
ognuno dei presenti aveva qualcosa da dire. Arrivò
anche l’auto dei carabinieri. Chiesero informazioni
ai poliziotti.
“E’ salita la polizia municipale, ci sono dei
ragazzi di quattordici anni, che hanno acceso il fuoco nel
sottotetto”.
Improvvisamente il brusio dei curiosi s’interruppe e
tutti guardarono verso il portone d’ingresso. I ragazzini
camminavano in mezzo al severo incedere degli agenti e parevano
ancora più piccoli ed indifesi. Li caricarono in macchina
come si fa con i delinquenti e li portarono al comando. Polizia
e carabinieri ripresero i rispettivi posti in auto, scambiandosi
sorrisi beffardi. La gloria di questa coraggiosa azione, l’avrebbero
generosamente lasciata alla polizia municipale.
Un vigile urbano accompagnò Denise nell’ufficio
del comandante. Qualcuno le aveva telefonato perché
andasse a riprendere il figlio, preoccupandosi di precisare
che non era successo nulla di grave. Nello studio c’erano
già due altre mamme, quella di Daniele e di Andrea.
Il loro volto era tranquillo. Il battito cardiaco di Denise
era ben lontano dall’essere regolare; il pensiero obnubilato,
le energie più scarse che mai. Si rimpiattò
su di una sedia.
“Ecco signora, come ho gia spiegato” e fece cenno
alle altre due donne, “abbiamo trovato i vostri figli
nella vecchia scuola Beltramelli. Non hanno commesso niente
di male. Abbiamo capito che sono bravi ragazzi. Si sono giustificati
spiegando che, come scout, volevano esplorare l’edificio.”
Queste parole, pronunciate in tono eufonico, diedero a Denise
una grossa sensazione di sollievo. Si accomodò meglio
sulla sedia e continuò ad ascoltare, quell’inaspettato
interlocutore.
“Sapete, noi siamo sempre all’erta. Un mese fa
è stato trovato, in un vecchio edificio abbandonato,
il cadavere di un extracomunitario. Mi capirete, spero. Abbiamo
delle responsabilità. Poi lo stabile della Beltramelli
è pericolante: può anche crollare qualcosa da
un momento all’altro.”
Il solenne monologo del personaggio insinuò nelle tre
ascoltatrici una relativa tranquillità.
“Noi abbiamo già fatto una bella paternale ai
vostri figli. Ora sono molto spaventati. Forse non è
il caso che li sgridiate anche voi. E’ stata solo una
ragazzata comprensibile. Chi non ha fatto sciocchezze a quell’età.
Sono padre anch’io.”
Al di là del vetro, nell’attigua stanza d’attesa,
le madri intravedevano i loro ragazzi accasciati, in silenzio,
su un divanetto nero in semipelle. Andrea aveva il volto rosso
paonazzo; Daniele era bianco cadaverico; il viso di Bibien
era nascosto dalle foglie di una dieffenbachia maculata. L’espressione
di sofferenza dipinta sui volti dei ragazzi scomparve non
appena le madri si avvicinarono.
Denise seppe che Bibien era stato preso a calci da uno degli
agenti di polizia urbana. Sentì vibrare violentemente
la sua più profonda essenza di madre. Si fece descrivere
i tratti somatici dell’impavido e li memorizzò,
nella viva speranza di incontrarlo prima o poi in una strada
cittadina.
XXX
A
casa, in ufficio, in tutte le attività, l’immagine
di Corrado Menni era una costante nella mente della donna.
Lo psicologo costituiva ormai l’incontrastato protagonista
dei suoi pensieri. Era un rifugio, una forza, un iperbolico
spazio affettivo, una speranza vitale. Da quando lo frequentava,
le era venuta voglia di vestirsi secondo la moda, di perdere
qualche chilo, di cambiare pettinatura e il tempo era solo
un succedersi di momenti che terminavano nell’appuntamento
col dottor Menni.
Un giorno, lui, le aveva trattenuto a lungo la mano ed ella,
infiammata da quell’ipocrita promessa, si era abbandonata
a sogni fantastici. Si recava nel suo studio con la speranza
che lo facesse di nuovo, ma l’uomo si limitava a guardarla
a lungo negli occhi mentr’ella parlava, trincerato dietro
un’ambigua maschera professionale. All'uscita, anziché
sentirsi caricata dai buoni consigli, cadeva in depressione.
L’ora luminescente era trascorsa come le altre, nel
nulla.
Iniziò a sentirsi miserrima, niente e nessuno le riempiva
l’anima. Questa vacua sensazione dello spirito la rendeva
ispida e taciturna. Bibien glielo rinfacciava, ma lei prendeva
a pretesto il fatto di essere costretta a sostenere due ruoli:
di padre e di madre. Era invece la mancanza di qualche piccolo
tenero risvolto della quotidianità che la inaspriva.
Si arrabbiava per un nonnulla ed era mal disposta a mediare.
La sera, prima di coricarsi, appoggiava i gomiti alla finestra
e guardava il cielo, semiaffogata in provvidenziali fantasticherie
che la distoglievano dall’amara sensazione di vivere
una vita escrementizia. Gli ammonimenti del passato erano
solo cani latranti da scacciare con un grosso bastone. Era
ancora così giovane il suo cuore e la sua pelle ancora
così liscia! L’uomo dei suoi sogni, alimentava
la speranza e moltiplicava l’intensità di quel
sentimento mai espresso. Negli incontri periodici una donna
timida e remissiva aveva sostituito il personaggio composto
delle prime sedute. Quel personaggio ormai non era più
solo una valvola di sfogo, la testa pelata che oscillava verticalmente
in un continuo cenno d’assenso, colui che raccoglieva
i suoi rammarichi e che elargiva silenzi pregni di comprensione
e parole di condivisione, ma un vero e proprio mito, un desiderio
di lunghi giorni.
Quel pomeriggio il dottor Menni parlò meno del solito
ed ascoltò molto più d’ogni altra volta.
Al termine, fissandole addosso i suoi occhi alla cinese, le
sussurrò:
“Avrei due biglietti per l’Arena di Verona, per
lo spettacolo di domani sera. Danno la “Madame Butterfly.
Le andrebbe di venirci con me?”
Denise si sentì accalorare. Lo stupore le bloccò
il movimento delle orbite. Più che mai confusa, si
risolse a rispondere.
“Interessante. Dovrei pianificare.”
“Veda di organizzarsi, ”
disse lui col sorriso di chi la sa lunga. Denise nascose la
sua emozione scodellando freddi accordi sull’orario
d’incontro dell’indomani e si accomiatò.
Scese le scale a balzi. Esistono i miracoli? Eccome. Ne aveva
la certezza.
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