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Gli
anni della guerra furono lunghi e difficili, nel periodo delle
vacanze scolastiche soggiornavamo sovente a casa delle zie
che godevano di un confortevole attico al quartiere Testaccio
diventato, con la morte del nonno, più spazioso e accogliente,
Bice veniva a farci visita tutti i giorni. Questa vecchina,
dai capelli bianchi raccolti sulla nuca da un ciuffo, piccola
di statura, timida e silenziosa, suscitava tenerezza e rispetto;
nata in un paesino vicino Roma, non si era mai seduta su un
banco di scuola; per un’analfabeta qual'era, riuscire
a scrivere in modo così corretto, senza errori di grammatica
né di sintassi, con una buona proprietà di linguaggio,
con una calligrafia precisa, lunga e appuntita, non poteva
che stupirci ogni volta.
Bice si sedeva dietro il tavolo della camera da pranzo e cominciava
a scrivere senza porre la minima attenzione al foglio che
man mano, come per magia, si riempiva di tante parole. La
mano di Bice scivolava sicura anche quando lei seguitava a
conversare del più e del meno con noi che la guardavamo
attoniti. La penna, guidata da un’invisibile mano, si
fermava solo quando appariva, a lettere ben visibili, il nome
del piccolo Aurelio, che, ad ogni sua missiva, ci benediceva
raccomandandoci di seguire i suoi consigli e rassicurandoci
che tutta la famiglia era sotto la Sua protezione.
Una volta scrisse che mio padre era circondato dal fuoco e
che il suo colonnello era morto, ma che lui sarebbe tornato
presto in licenza sano e salvo.
Papà, quando venne in licenza, ci raccontò che
il suo colonnello, in quel giorno e in quell’ora, morì
sotto un bombardamento e che lui ne uscì vivo per miracolo.
Queste e tante altre cose scriveva Bice, senza mai chiedere
un compenso; spiegava che su certi doni non si può
lucrare, senza correre il rischio di perderli.
Una volta chiesi a Bice la ragione del mio miracolo e il piccolo
Aurelio, a quella mia domanda, rispose che ero destinata a
compiere una "missione di luce" e aggiunse che le
forze del male mi avrebbero tormentata per impedirmi di portarla
a termine.
Da quel giorno zia Annita prese l’abitudine di disporre
quattro vaschette d'acqua benedetta ai lati del mio letto:
Mi parlarono talmente tanto del diavolo che io cominciai a
vederlo e sentirlo.
Puntualmente, ogni notte a mezzanotte, sentivo l’unghia
del diavolo che mi penetrava nel cervello mentre strane voci
e figure mostruose tormentavano le mie notti.
Le mie urla svegliavano tutta la famiglia e mamma correva
accanto al mio letto tentando inutilmente di rassicurarmi.
Un giorno, incautamente, parlai a zia Annita della "mia
musica": una musica che non era una musica, ma un suono
incantato di violini che mi catturava e mi portava lontano,
in un mondo che descrivevo come un "palcoscenico di stelle"...
... Fui esorcizzata....
Questa volta il consiglio a mia zia glielo dette una certa
Giovanna, che affermava di parlare con Gesù.
Mi portarono in una chiesa del quartiere Celio, sopra al Colosseo,
dove un certo monsignore aveva la “dispensa” per
esorcizzare.
Era un uomo alto ed ossuto, col naso a becco d’aquila.
Come lo vidi entrare nel sacrato, mi aggrappai alla gonna
di mia zia implorandola di portarmi via, ma quell’uomo,
con la gonna nera e la papalina in testa, disse che non ero
io a voler fuggire ma il diavolo che mi possedeva.
Ancora
oggi questo ricordo mi fa fremere di sdegno!
Cosa non pagherei per poter abbracciare oggi quella bambina
tutta occhi, con la piccola frangetta e le treccine sottili!
Cosa non pagherei per stringermela al petto e dirle:
-Bibì, il tuo mondo è importante, tu sei importante
e un giorno te lo dimostrerò.. non ascoltare quello
che gli altri dicono di te, stanno mentendo-
Quel “sant’uomo” non abbracciò Bibì
né la consolò, ma le ordinò di prostrarsi
sulla gradinata dell’Altare Maggiore e chiedere perdono…
chiedere perdono a chi? Chiedere perdono di che?
Bibì lo guardò con aria di sfida e si rifiutò
d’inginocchiarsi… e allora fu ghermita da quelle
mani ossute e gettata sulla gradinata.
La fame e la malattia l’avevano resa scarna e denutrita;
le sue costole, nell’urto col marmo, scricchiolarono
e in quel momento imparò a piangere... a piangere dentro!
Non dovevano vedere le sue lacrime, non le meritavano…
non le avrebbero capite!
La sua mente urlava talmente forte da farle credere che tutto
il suo corpo urlasse.
Non sentiva le parole pronunciate in latino, non avvertiva
l’acqua benedetta che quel “sant’uomo”
le schizzava addosso come volesse frustare quel piccolo corpo
impotente, fremente di rabbia.
Al termine del “loro” rito Bibì non aveva
più voglia di alzarsi.
Avvertiva la precisa sensazione che, da quel momento, avrebbe
dovuto guadagnarsi e difendere ogni granello della sua vita.
Nessuno l’avrebbe più amata, neanche la sua famiglia…
non era possibile amare un’indemoniata!
Bibì aveva deciso… aveva generato il suo "guscio".
Tornando
a casa pensai a mio padre che era in guerra ”Quando
tornerà in licenza gli racconterò tutto, così
andrà da monsignore e gli darà un sacco di botte...
per quello che può vedere i preti lui!”
L’idea di mio padre che menava al prete mi fece finalmente
sorridere, ma quando mi accorsi che la fettuccia di uno zoccoletto
si stava sfilacciando pensai alla preoccupazione di mia madre
nel dovermi comprare un paio di zoccoletti nuovi e non pensai
più al prete.
Era quasi mezzogiorno, dovevo affrettare il passo altrimenti
non avrei fatto in tempo a prendere la minestra dalle suore.
Tolsi lo zoccoletto per camminare più in fretta, costringendo
mia zia ad arrancare per la salita di San Saba. Finalmente
vidi mia madre che mi veniva incontro con la piletta in mano;
presi la piletta e, saltellando con lo zoccoletto in mano
come se giocassi a campana, mi avviai verso il convento delle
suore.
Sentivo freddo, cercai il sole, ma al suo posto, alta nel
cielo, vidi soltanto una "pallina gialla".
Nel
'43, mio padre tornò a casa per una breve licenza;
appena il tempo di mettere incinta la moglie e barattare il
suo orologio con una ciriolina nera e gommosa. Quando mi salutò
aveva gli occhi pieni di lacrime ed io non ebbi il cuore di
chiedergli di "andare a menare" a monsignore...
con la rabbia che aveva dentro, lo avrebbe sicuramente ammazzato
di botte!
Mi ero abituata a convivere col diavolo che, con la sua voce
chioccia, mi chiamava svegliandomi ogni notte.
Anche mamma non raccontò al marito di quella mia dolorosa
esperienza; mio padre se la sarebbe presa sicuramente con
lei e magari avrebbe anche bestemmiato, proprio come quando
quel prete voleva darmi l’Olio Santo... doveva ripartire
per la guerra, era più giusto tacere.
***
*** ***
Una
mattina vidi cadere le bombe.
Mentre passavo i giornali asciutti ad Anna che, scalza sul
davanzale e con le persiane accuratamente chiuse, puliva i
vetri della finestra, suonò l’allarme e si udì
un assordante rombo di aerei proprio sulle nostre teste. Istintivamente
aprii la persiana in tempo per vedere uscire dalla pancia
dei bombardieri tanti palloncini neri che volteggiavano nell’aria
assumendo una forma ovoidale.
Anna rimase impietrita sul davanzale: una piccola mossa poteva
esserle fatale. Io le gridai:
-Anna, guarda le bombe!-
E mi attaccai alle sue gambe impedendole di scendere. Anna,
temendo di perdere l’equilibrio, cominciò a urlare:
-Fammi
scendere!-
Ma io rimasi incollata alle sue gambe, fino a quando un boato
fece tremare la finestra sbattendomi sul pavimento con Anna
fra le braccia.
Da quel giorno l’urlo delle sirene diventò un
rumore familiare: quel maledetto suono lacerava l’aria
anche più volte al giorno.
Dopo il primo bombardamento, mamma iniziò a vivere
nel terrore. Accanto alla nostra porta, a portata di mano,
c’era sempre un "borsone" con dentro un bottiglione
d’acqua, un bicchiere, un fagottino con le poche cose
preziose salvate dalla borsa nera e una coperta, nel caso
che la permanenza nel rifugio si prolungasse.
Appena suonava la sirena, mamma afferrava il borsone urlando
a noi figlie di affrettarci, senza perdere un minuto di tempo
e scappare così come ci trovavamo. Le volte che quel
suono non ci trovava tutte unite, mia madre, pazza di paura,
chiamava a gran voce i vicini perché l’aiutassero
a cercarci.
Avevano costruito un rifugio a Piazza Albania, ma per raggiungerlo
dovevamo percorrere l’intero viale di San Saba. Per
noi ragazzine quella discesa era soltanto una bella corsa,
ma per nostra madre in attesa del quarto figlio era un problema.
Quel “fuggi fuggi“ notte e giorno, anche per un
falso allarme, cominciò a infastidirmi e alle suppliche
di mia madre facevo “orecchie da mercante”; aprivo
gli occhi soltanto quando la vedevo li li per svenire e solo
allora, svogliatamente, indossavo la vestaglietta e scendevo
le scale brontolando. Mia sorella Marisa, anche in quei frangenti,
fra un gradino e l’altro si pettinava i boccoli, alcuni
vicini prendevano in braccio mia sorella Rossana, mentre altri
sorreggevano mia madre e il suo pancione.
Una volta mamma, mal consigliata, mi fece trovare la scheggia
di una granata sul letto, pensando che mi spaventassi e la
smettessi con quei miei capricci. All’allarme che seguì
dal "ritrovamento del residuato bellico" obbligai
tutta la famiglia a restarsene a casa: ero caduta in catalessi.
A mia madre iniziarono le doglie al suono di una sirena e
non potendo correre per andare al rifugio, Nicla, che abitava
al piano terra, la fece sdraiare sotto un tavolo, adagiandole
sul pancione un materasso per proteggere il nascituro da eventuali
schegge o calcinacci.
Tutto il quartiere era convinto che quel figlio sarebbe nato
ballando per “gli arresti di sangue” subiti da
mia madre.
Mia sorella Paola nacque, ma l’arresto di sangue l’ebbe
mio padre quando gli comunicarono che era nata una quarta
femmina.
Quando papà venne in licenza, dopo aver controllato
personalmente il sesso della nuova nata, attaccò un
bel cartello sul portoncino della palazzina gialla con su
scritto a caratteri cubitali
“E’ nata un’altra femmina… il povero
padre”
A tutti coloro che in seguito gli chiedevano quanti figli
avesse, rispondeva:
”Tre femmine e una bambina”
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