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Non
lo sentii per diversi giorni. Pensavo fosse partito per l’Africa,
poi una sera mi telefonò. Erano le dieci e mi disse
che si trovava vicino al Colosseo, in una birreria; mi pregò
di raggiungerlo e aggiunse che aveva voglia di bere qualcosa
con me. Era una calda serata d’estate; indossai qualcosa,
senza alcuna ricercatezza ed uscii.
Quando entrai nella birreria, mi resi conto immediatamente
che aveva già bevuto troppo. Era davanti al bancone,
con le spalle appoggiate al muro ed un bicchiere di birra
in mano. Indossava una camicia azzurra che le luci del locale
rendevano fluorescente ed il suo sguardo era perduto chissà
dove. Nel vedermi i suoi meravigliosi occhi verdi mi sorrisero
e, staccandosi lentamente dal muro, mi tese la mano libera
dal bicchiere:
-Sei
destinata a venirmi a recuperare. E’ già la seconda
volta che ti chiedo aiuto… sono felice che tu sia qui!
Cosa posso offrirti?-
-Un
succo d’ananas-
Mi guardò con aria leggermente disgustata e ripetè:
-Un
succo d’ananas?-
-Lo
sai che sono quasi astemia, bevo solo champagne!
Mi guardai attorno e proseguii:
-E’ grazioso questo locale… anche nell’altro
c’era un pianoforte, peccato che manchino i pianisti!…
Come stai?-
-Ero
indeciso se chiamarti ancora; l’ultima volta mi hai
quasi sbattuto fuori dalla macchina! Mi hai fatto sentire
male! Non puoi trattarmi così… come un sacco
vuoto!-
-Io
ti ho sbattuto fuori dalla macchina?-
-Si!
Quando m’accompagnasti l’ultima volta. Non so
perché tu l’abbia fatto. Forse avevamo parlato
troppo quel pomeriggio a casa tua. Ricordi?… Avremmo
dovuto far l’amore per scaricare la nostra rabbia…
No! Nemmeno questo è giusto. Non ho nessun diritto
di scaricare la mia rabbia dentro di te, queste cose si fanno
con le puttane!-
E
seguitò a sorseggiare la sua birra.
-Cosa stai dicendo? Il paragone delle puttane non regge! Tu,
insieme alla tua rabbia, mi avresti buttato dentro anche tanto
amore, questo con le puttane non succede!
Mi hai telefonato per rimproverarmi? Ed io che in questi giorni
mi preoccupavo per te ed aspettavo con ansia una tua telefonata;
come questa è arrivata, mi sono precipitata e tu, ora,
vuoi colpevolizzarmi?… Sparisci “insalutato ospite”
e pretendi che non ti chieda niente?-
Mi stavo rendendo conto che avevamo iniziato la nostra prima
lite. E lui con voce alterata:
-Ti
ho mai chiesto della tua vita? Che fai? Chi sei stata? Quali
traumi, quali sofferenze hai dovuto sopportare? Io so che
sono rimasto esageratamente coinvolto da te, al punto da desiderarti
notte e giorno!… Qui, nella mia tasca destra, c’è
un nastro che ho registrato ieri notte. Ricordavo una stupenda
canzone brasiliana, incisa su un vecchio disco, che porta
il tuo nome. Vogliamo dire alla signora se gentilmente ce
la fa ascoltare?-
-Preferisco
ascoltarlo tranquillamente a casa mia, magari sul mio terrazzo.
Adesso ho voglia di uscire da qui-
Mentre ci avviavamo verso la macchina, mi confidò che
da quando mi aveva incontrata, in lui era tornata la voglia
di riscoprire Roma e aggiunse:
-Quanto
l’ho odiata questa città prima di conoscerti!-
Le
stesse parole che mi aveva detto a Palermo.
Dissi che l’avrei portato a scoprire una piazzetta bellissima
che si trova sul colle Aventino, accanto al “giardino
degli aranci” e gli spiegai che su quella piazza c’è
un portone con un foro, avvicinando l’occhio a quel
foro si vede centrata alla perfezione, la cupola di San Pietro.
Mi rispose che già conosceva quella piazza, ma che
ritornarci insieme a me sarebbe stata tutta un’altra
cosa. Girammo fino all’una di notte, ero felice di scoprire
la mia Roma insieme a lui!
Mentre guidavo sentivo il suo sguardo su di me. Non lo vedevo,
ma immaginavo i suoi occhi infinitamente tristi, con quell’amara
smorfia all’angolo della bocca, che tanto mi colpì
quando lo vidi la prima volta. Chi era veramente quell’uomo
che si lasciava trasportare e che si affidava a me come volesse
ossigenarsi con le mie parole? Perchè questo suo incredibile
bisogno di una favola? Quale favola mi sarei dovuta inventare
per lui? E se gli avessi regalato una favola sbagliata? Se
l’avessi deluso nella sua aspettativa? Forse ero io
ad aver bisogno di una favola… ero io che aspettavo
che lui me ne regalasse una… Dovevo stare attenta alle
parole che con tanta facilità e leggerezza, seguitavo
a dire! Mi accorsi che avevo paura di fargli del male. Paura
di questo strano gioco nel quale anch’io mi sentivo
coinvolta. Fortunatamente la sua voce mi distrasse da quei
pensieri che incominciavano ad immalinconirmi.
-Ti
ho mai parlato delle stupende maree della Normandia?-
Feci
un cenno di diniego con il capo.
-Sono
le più belle maree del mondo!-
Poi
all’improvviso:
-Mi
dai un bacio?-
Io gli porsi la bocca, ma lui si avvicinava, la sfiorava e
poi si ritraeva. Lo fece diverse volte, finché gli
chiesi io di baciarmi, ma lui mi rispose che quel ritrarsi
faceva parte del gioco dell’amore. Gli chiesi se in
amore usasse delle tattiche.
-Non
ne avrei bisogno. Sono sempre stato molto fortunato con le
donne… Lasciami almeno questa piccola illusione-
Finalmente
ci baciammo lungamente e dolcemente. Tra un bacio e l’altro,
gli chiesi:
-Gireremo il mondo come due vagabondi?-
Mi rispose che lui, nella vita, aveva già fatto tutto
e non poteva immaginare di poter fare qualche cosa di nuovo.
Aggiunse:
-Temo
che anche questa sera tornerò a casa con tanta rabbia
dentro, per la voglia che ho di te. Molto spesso ci convinciamo
di raccontarci una favola, poi t’accorgi che non puoi
inventarti più niente. L’invenzione la devi immaginare,
ma non la puoi vivere, nel momento che la vivi diventa un
aspetto della tua realtà. Io non voglio morire prima
di essermi ripreso ciò che mi appartiene… le
mie ali… quelle che tu mi prendesti quella notte a Palermo.
Due ali sono un dono prezioso, non si regalano così!
Quante difficoltà, quante rinunce, quanto dolore, quante
lacrime, prima che queste riescano a portarti su di una nuvola
piena di coriandoli! Dovrai rassegnarti a tenermi sempre con
te se vuoi che io ti lasci le mie ali anche “dopo”!-
Quel
suo discorso mi arrivò come l’eco lugubre di
una campana che suona a morto.
Un brivido mi percorse la schiena:
-Ho freddo!-
Edoardo mi strinse ancora di più a sé.
L’alba ci sorprese abbracciati…
Prima di lasciarci gli chiesi:
-Che cos’è per te l’amore?-
-E’
gioia-
-E
se si trasforma in dolore?-
-Lo
chiameremo con un altro nome!-
...
DOPO LA FAVOLA...
Mi
alzai, aprii il baule, ne estrassi l’abito di seta turchese
tempestato di stelline d’argento che tanto mi aveva
fatto sognare. Lo appoggia sulla camicia da notte azzurra
e, nello specchio, rividi Gazzella. Istintivamente incrociai
le braccia sul petto come a volerla proteggere.
Sia Gazzella che Bibì mi avevano creato, nel corso
della mia esistenza, qualche problema per la loro inesauribile
voglia di correre a briglie sciolte nella prateria della Vita:
gli “Orchi” non fanno paura a un “cavallo
pazzo! E loro lo erano: entrambe rincorrevano un palcoscenico
di stelle.
Pensai alla mia amica Gigì, di professione “mezzana”,
che io considerai, da subito, la mia fatina azzurra e il suo
salotto, un rifugio. A lei confidavo amori e delusioni, sicura,
ogni volta di non essere fraintesa.
La sua morte mi procurò sofferenza e qualche rimorso
per averla trascurata un po’ negli ultimi anni.
Ed ora il suo fantasma tornava per regalarmi, insieme agli
altri, preziosi frammenti di vita.
I fantasmi sono i soli a non temere il tempo e vincono sempre
quando chiedono di essere ricordati. Anche Gigì, quella
mattina, vinse il suo momento di vita: lo reclamava, lo pretendeva,
lo meritava.
Cercai il registratore, mio prezioso alleato, sempre pronto
a catturare l’onda emozionale del momento. Lo appoggiai
sul cuscino accanto a me e lo accesi.
Avevo voglia di ricordare la mia amica con la voce che tanto
amava, la mia. Poi, un foglio bianco l’avrebbe resa
memoria scritta.
Chiusi gli occhi; ero nel salotto di Gigì, lo riconobbi
dall’inconfondibile odore di cose buone. Ed io ero lì
per parlarle di Edoardo, ignara che quello sarebbe stato il
nostro ultimo incontro.
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