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Introduzione |
Adesso
che hanno tagliato gran parte dei pini che lo nascondevano, l’edificio
è lì senza più segreti. Nudo, grande, trasparente. I tanti
ingressi in basso attraversati dal vento e dalla luce, intrecci di ferro al
posto delle tegole. Si vede, trapassando i muri esterni con Io sguardo, ogni
rettangolo, che prima era finestra, come un televisore che trasmette programmi
naturalistici: rami d’albero, fogliame, nuvole leggere nel cielo, alti
prati mossi dal vento, e la sabbia di fiume dove qualche volta abbiamo trovato
monete antiche.
Tutto quanto
c’è dietro la fabbrica è rimasto uguale e passa nei monitor
immaginari come varie inquadrature di programma in una cabina di regia televisiva.
Dentro non c’è più nulla: la stanza di Fortuna cancellata.
Le scale interne, i muri divisori, l’angolo cucina: tutto sparito.
Ne faranno
un centro di cinematografia. Mi dispiace.
Quando pochi
potevano scorgerlo dalla via del mare era come se mi appartenesse, e ci tornavo
spesso a rivedere dove lei aveva dormito e vissuto per circa due mesi.
La sua storia
ho iniziato a scriverla subito. I fatti che tra quelle mura erano accaduti li
ho vissuti come un film. Irreale e drammatico, ma tutto sommato da vedere.
Ne faranno
un centro di cinematografia. E’ una strana coincidenza. Il miglior film
è stato già qui prodotto prima che nascesse questa idea di ristrutturare
l’edificio. Ci ha pensato la natura a farlo, avendo il caso come sceneggiatore,
il buio e la penombra, come esperti della fotografia, Fortuna come unica protagonista.
Alcuni operai
stanno recintando l’ampio terreno che circonda la ex Breda. Provo un frustrante
senso di impotenza. Vorrei dir loro di andar via. Di non toccare nulla. Le scritte
sui muri gli appartenevano per caso? caso? e la stanza dove Fortuna dormiva?
I pini spogli,
i pochi rimasti da quell’intricato bosco e sottobosco che prima nascondevano
la fabbrica, stanno ad indicare che sotto di loro si farà un parco ordinato.
Qualche vialetto si asfalterà, qualche aiuola ne renderà graziosi
i contorni. Metteranno un cancello. Ci vorrà, credo, un permesso per
entrare. Porcogiuda.
Tornerò
qui, prima che distruggano ogni cosa, e con una videocamera riprenderò
lo scheletro della fabbrica. Per rendere reali i fatti che qui ho visto svolgersi.
Per testimoniare, anche a me stessa che Fortuna, con la sua storia, è
esistita davvero.
.
.
02) Ostia antica maggio 1998: visita al casale.
La
bicicletta dipinta di rosa da noi, me e Michelangelo, svolge la sua funzione
senza pericoli di lasciarmi a piedi.
La campagna
con i cascinali di Ostia antica e l’erba ondeggiante per il forte vento
sono uno spettacolo di rilevanza quasi filmica. La casa di Zola incuriosisce
Michelangelo perché lui non ha mai visto un’aia al di fuori dei
libri di testo delle elementari.
“Qui
abitava Zola”.
“Il
vecchio?”
“Sì”
gli rispondo. E aggiungo altri particolari alla storia che gli ho già
tante volte raccontato.
Mio figlio
mi osserva procedere piano e trattiene a fatica, con l’energia dei suoi
undici anni, le pedalate, per non lasciarmi indietro. Improvvisamente corro
veloce per gustarmi la sua faccia stupita nel vedere che lo supero di una ventina
di metri. Ride e si mette a correre pure lui raggiungendomi in brevissimamente.
Siamo subito nel cortile e il nostro ridere fa uscire Rosa.
“Ne
hai oggi di uova fresche?”, chiedo.
“Poche,
perché le galline in questo periodo non ne fanno”.
“A
Miki ne bastano due per lo zabaione”.
“E’
questo tuo figlio?”
Rosa ha acquistato
la casa dopo che Zola e la sua famiglia si sono trasferiti a Modena. Sono stata
io a trattare la compravendita tra loro e i vecchi proprietari. Rosa ha sessantacinque
anni e vive qui con suo marito.
Dopo poco
esce pure lui sul patio.
“Salve!”
“Buongiorno!”
“Vieni,
vieni che ti do qualcosa”
Giovanni
ci fa strada all’interno della grande cucina. Sulla stufa a legna un pentolone
ribolle e manda un profumo di minestrone.
“Ce
l’hai il pecorino?”
“No”,
gli rispondo
“E
compralo, sennò con che le mangi tutte queste belle fave?”
“Certo,
quando mi dai le fave mi compro il pecorino!”
“E
quando ti do i meloni?”
“Mi
compro il prosciutto!”
“Per
forza, io i maiali non ce li ho!”
I miei due amici
mi prestano anche una cesta per metterci uova e fave. La lego bene sul portapacchi
della bicicletta e procediamo per la nostra passeggiata in campagna.
Mi ricordo com'era questo luogo al tempo della storia di Fortuna
.
03) Anno 1990, un salto indietro nel tempo
Nessuno passava
di lì a piedi e questo la salvava dalla curiosità della gente.
Di notte udiva le automobili correre sulla strada; ne vedeva il lampeggiare
dei fari; le erano di conforto. La facevano sentire meno sola.
Non aveva
avvicinato esseri umani da quando si trovava in quel luogo. Mesi, giorni lunghissimi.
Ore troppo brevi che si sommavano e la portavano dove lei non avrebbe mai voluto
arrivare. Al tempo delle risposte.
Il binocolo
con cui osservava fuori le permise di scorgere un vecchio. Osservò al
riparo di una delle decine di finestre e lo vide avvicinarsi con passo energico,
sul lato destro dell’edificio, oltre la doppia corsia delle automobili;
nella zona archeologica con ruderi e colonne bianche emergenti tra il verde
del tappeto erboso. Un vecchio dai candidi capelli, lisci e un po’ lunghi
sul collo, la pelle cotta dal sole. Raccoglieva qualcosa, forse dei funghi,
e li metteva dentro una grande cesta. Un vecchio innocuo che di buon mattino
camminava tra i boschi.
Decise di
anticipare le sue uscite ai primi chiarori dell’alba per non incontrarlo.
Anche lei raccoglieva velocemente quello che poteva e subito si rintanava. Quando
il vecchio appariva, lo metteva a fuoco col piccolo binocolo e osservava tutti
i suoi movimenti. Si abituò a seguirlo con lo sguardo ogni giorno. Per
passare il tempo. Prese a contare tutte le volte che lo vedeva inchinarsi, poi
a cercare di indovinare che percorso avrebbe fatto.
L’uomo
era abitudinario nelle sue passeggiate. Una mattina cercava nel lato destro
della zona fittamente alberata dietro l’edificio, il giorno dopo frugava
tra i cespugli nel perimetro di terreno compreso tutto intorno agli scavi, lontano
dai ruderi, ma comunque in zona archeologica. Fortuna immaginò che più
che funghi o lumache il vecchio cercasse reperti. Lei pure ne aveva raccolti.
Involontariamente s’era ritrovata a scovare un’anfora di piccole
dimensioni e alcuni monili antichi.
.
04)
Ostia Antica, settembre 1990
Raggiunse
a fatica la metà della rampa di scale. Si sentiva stanca per la lunga
passeggiata tra i boschi. Sedette sul gradino, soffiò sui cinque corbezzoli
che aveva nel palmo della mano e li mangiò. L’ asprigno dei frutti
le piaceva e fu tentata di scendere a raccoglierne altri, invece risalì
e presto fu in cima al largo pianerottolo. Rientrò nell’ambiente
che ormai le era familiare come una casa. Era questa in fondo da tempo la sua
grande casa. La fabbrica non le sembrava più fredda e enorme come all’inizio.
Quell’edificio era diventato il suo castello, e lei una principessa in
esilio. In fondo i suoi diciotto anni non erano lontani dall’innocenza
e la fantasia dell’infanzia.
Ogni cosa,
della vita insolita che stava vivendo, poteva essere parte di un sogno
o di una favola. Peccato che non riusciva ad immaginare un lieto fine che concludesse
la sua esperienza.
In un angolo,
sotto una delle finestre, c’era un sasso. poggiato su di un altro sasso
molto grosso di forma quasi cubica. Era usato da Fortuna come sgabello, ma al
momento avrebbe avuto un’altra funzione perché lei si svuotò
le tasche per prendere dei pinoli che poggiò lì sopra, poi con
la pietra piccola iniziò a romperli. Estrasse i semi uno alla volta e
li raccolse tutti nella gonna a fiori. Quando ne ebbe un bel mucchio se ne riempì
la bocca e masticò godendo del loro sapore fresco e oleoso.
Due pigne
ancora intatte erano sul pavimento, dimenticate dal giorno prima. Le osservò
e dopo un attimo prese ad aprirle; tirò fuori altri pinoli decisa a prepararsi
un secondo voluttuoso boccone. Così, lieta di quel poco, trascorse un
lungo tempo nel preparare la sua prima colazione.
Polifemo scalciò
d’improvviso all’interno del suo ventre e lei si alzò dalla
posizione accucciata che aveva assunto. Prese a camminare avanti e indietro
nel grande spazio che aveva a disposizione. Centinaia di metri quadrati. Il
suo castello non era cosa da poco. Stava da sola in quell’enorme edificio;
ne era l’unica abitante e sperava di continuare ad esserlo fino all’ultimo.
Prese uno
dei libri che aveva e rilesse ciò che ormai sapeva a memoria. “Se
gli occhi consumassero i caratteri scritti”, pensò, “queste
pagine sarebbero bianche”. Poggiò il volume sul davanzale e calcolò
che in autunno avrebbe chiuso il periodo dell’attesa. Per questo non si
preoccupava di poter soffrire il freddo. Tutto sarebbe finito prima che il tempo,
mutando, potesse darle problemi. Neppure si sentiva a disagio per la scomodità
del duro pavimento, ammorbidito solo da un plaid e da un sacco a pelo. Qualche
volta, nei primi giorni, aveva sofferto di dolori alle ossa che col passare
del tempo s’erano attenuati fino a scomparire.
Il suo corpo,
messo alla prova, aveva saputo compiere un lavoro di adattamento che l’aspetto
sano del suo viso dimostrava. La pelle rosea, appena un po’ più
colorita sulle guance, i capelli lucidi, i lunghi sonni ristoratori, erano prove
della sua ottima forma fisica nonostante i disagi.
A lei in
fondo non importava nulla che non fosse legato all’evento Polifemo. I
suoi giorni passavano nel coltivare ipotesi che la dividevano in due; una pane
ansiosa di anticipare i tempi per sapere se i suoi timori erano fondati, l’altra
che preferiva restare nell’attesa e ignorare la verità.
Era dentro
una fiaba adesso e stava bene. Il libro della sua quotidianità la conteneva
come la protagonista di una storia bella: il bosco dei pini all’esterno,
l’umido prato, i funghi bagnati di rugiada che raccoglieva al mattino.
Il suo mondo incantato, luogo di gnomi nascosti chissà dove, era protettivo
nei suoi confronti, se era vero, com’era, che da qualche settimana viveva
lì senza che nessuno lo sapesse.
La ex Breda
aveva spazio all’interno e angoli riparati. Fuori invece si notava appena
tra i rami dei pini che la circondavano. La grande fabbrica abbandonata, immersa
nella natura, era inverosimilmente un posto dove gli uomini non sarebbero arrivati.
Nessuno s’incuriosiva al punto di arrivare fino lì. Non era mai
accaduto. Oltre il bosco di pini che confinava con la via del mare gli automobilisti
passavano senza immaginare che l’edificio potesse ospitare una ragazza.
Eppure la
grande struttura, non potendosi considerare un rudere perché, a pane
i vetri rotti, reggeva il peso del tempo, le era subito apparsa accogliente,
protettiva. I decori in marmo della facciata erano integri, come le pareti divisorie,
il tetto in tegole rosse, ed anche la zona uffici edificata su due piani.
Fortuna scelse
subito di abitare al primo piano, e di dormire nella stanza rossa. La stanza
con delle scritte rosse in francese su due pareti.
Lì
trovò la calma che le occorreva. Quasi le riusciva di essere serena come
se la sua vicenda, la sua storia, appartenessero ad un’altra. Aveva smesso
di pensare al peggio, aveva smesso di pensare al futuro. Stava in quella specie
di limbo tra sogno e realtà e non avrebbe voluto che quella sua condizione
avesse un termine.
Una notte fu svegliata
da una fitta al fianco. Osservò la parete rossa ma il buio era totale.
Il piccolo locale, scelto tra tanti proprio per le sue dimensioni, aveva le
pareti con le scritte a sinistra della porta d’ingresso.
Qualcuno
prima di lei aveva abitato quel luogo. Aveva dipinto le pareti di rosso e poi
scritto delle frasi in francese con una tonalità di rosso più
scuro di quello di base. La chiara grafia iniziava con frasi in stampatello
dall’alto della parete per finire a due centimetri dal pavimento.
Chi era stato
lì prima di lei?
Leggendo
quelle frasi avrebbe forse potuto capire qualcosa e immaginare il tipo d’uomo
che le aveva scritte. Oppure era una donna?
Così,
per passare il tempo e fantasticare Fortuna iniziò a tradurre. Lo faceva
però solo di sera, al buio, aiutandosi con i brevi bagliori delle auto
che transitavano con i fari accesi sulla via del mare.
Parola dopo
parola, sera dopo sera, leggeva imparando a memoria le frasi scritte:
“ENFIN JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT ET IL ÈTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME UN SENTIER... “
(Finalmente, dopo mezzogiorno, il sole s’eclissa tra i primi alberi del “boschetto”, dietro lo spigolo dell’edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi un sentiero… )
I fari delle auto, illuminando le finestre, sparivano velocemente e Fortuna
riusciva a leggere solo due o tre parole per ogni macchina che passava. Le univa
mentalmente a quelle già memorizzate componendo frasi sempre più
lunghe.
Quella notte
però era troppo tardi per continuare quel gioco. Le auto avevano smesso
da tempo di transitare con cadenza fissa. La parete era buia e non si distinguevano
le scritte dallo sfondo. Rimandò la lettura alla sera seguente.
Di giorno
invece Fortuna non restava mai in quella stanza e comunque non volgeva in nessun
caso lo sguardo verso la parete rossa, per non guastarsi il passatempo notturno.
Si girò su un fianco e la fitta che l’aveva svegliata diminuì.
S’accarezzò la pancia per mandare un segno d’affetto a Polifemo.
Lo amava, in qualsiasi modo egli fosse, lo amava; e glielo disse parlandogli
piano per spiegargli le cose che erano accadute. Riassunse anche per sé
le ultime giornate prima della fuga.
“Ti
racconto una storia piccolo”, disse, “che forse tu sai già.
O forse no. Forse non puoi sapere che cosa accade fuori dal tuo beato nido d’acqua.
Ascoltami... Era il ventiquattro d’agosto. Sono fuggita. Finalmente in
quel giorno mi si è presentata 1’occasione adatta. Ormai la mia
condizione si stava facendo evidente ed avevo accettato l’invito di zio
Gaspare per la sagra del paese...
Fortuna si riaddormentò
parlando al suo bambino e ricordando quella drammatica giornata dell’ultima
decade d’agosto.
.
05)
CIACCOLO, ventiquattro agosto 1990
Il
frastuono di quella giornata di festa non era abituale nel minuscolo paese.
La campagna a ridosso dei monti Aurunci era un luogo dove di nonna il silenzio
totale permetteva solo alla natura di esprimersi. Gli uomini, quasi tutti contadini,
si dedicavano al lavoro dei campi e usavano solo scarne frasi in momenti in
cui occorreva comunicare. Poi una volta l’anno arrivava il giorno della
saga, e ci si sentiva diversi, disponibili al divertimento, alla baldoria, agli
scherzi; per dimenticare almeno una volta stanchezza e miserie quotidiane.
La sagra
del broccolo offriva ai visitatori un gustoso piatto di verdure e salsicce,
cucinato alla maniera contadina, secondo un’antica ricetta di cui i ciaccolesi
andavano fieri. Si diceva, ed era quasi ormai una leggenda, che un antico marchese
di origini spagnole, un certo Gualtiero Gomez, era guarito da un’anemia
mortale grazie al fatto che la contadina che lo aveva ospitato, lì a
Ciaccolo, gli aveva fatto mangiare ogni giorno la “bruccusiccia”.
La pietanza,
nata durante il medioevo, aveva come ingredienti di base i prodotti di quei
campi, frutto del sudore dei contadini: il cavolfiore e il broccolo, primi re
della tavola di ogni abitante di quella zona e insieme a quelli, la salsiccia,
derivata dai loro allevamenti di suini. Quindi broccoli e salsiccia, da cui
la contrazione “bruccusiccia”.
Il prodotto
locale veniva esportato in altre parti d’Italia e questo migliorava le
condizioni economiche di coltivatori e commercianti che vi avevano a che fare.
Era tale
l’importanza che in quei luoghi si dava a quell’umile prodotto della
terra che la Proloco aveva fatto stampare degli opuscoli, distribuiti a scopo
pubblicitario, dove si enumeravano le mille virtù del broccolo e si invitava
la gente ad intervenire alla sagra annuale.
Il testo
era questo:
IL
“MEDICO DEI POVERI” SULLA VOSTRA TAVOLA.
STAR BENE
NUTRENDOSI DI CAVOLO.
Gli
antichi adoperavano il cavolo come pianta medicinale tanto che il greco Crisippo
gli dedicò un trattato. Il filosofo e scienziato Pitagora ne lodava continuamente
le virtù, mentre Ippocrate lo prescriveva per coliche e dissenterie.
Catone il censore, a Roma, diceva che i latini avevano/atto a meno dei medici,
per secoli, grazie all’impiego del cavolo, proprietà vermifughe
del quale furono evidenziate da Floridium Macer nel poemetto “De herbarum
virtutibus”.
Innumerevoli
sono i pregi di questo prodotto che la nostra terra produce: è vermifugo,
disinfettante, cicatrizzante di ferite. Ottimo rimedio contro punture d’insetti,
è lenitivo per reumatismi, gotta, dolori intercostali e sciatica. Senza
contare la sua grande efficacia contro angine, bronchiti e pleuriti. Il suo
alto contenuto di vitamina “C” lo eleva a piante risolutrice di
scorbuto e dissenteria. E, come se non bastasse, il suo contenuto in zolfo,
elemento indispensabile per l’organismo umano, ne fa un toccasana, oltre
che un potente calmante contro nervosismo ed insonnia.
Quindi: “ansiosi,
depressi, nevrastenici, inserite ogni giorno il cavolo nel vostro menù.”
Alle Otto e mezza
di sera, quando ormai era quasi buio, la distribuzione della bruccusiccia era
iniziata. La folla s’accalcava nei pressi del banco, dove, in enormi pentole,
veniva mescolata e cucinata quella poltiglia scura.
L’odore
di cibo, diffuso in ogni angolo della piazza, lasciava intuire che la pietanza
dovesse essere di buon sapore. Molti, usciti dalla chiesa bianca e scorticata
negli intonaci, che sorgeva a pochi passi, si indirizzavano al banco della distribuzione.
Infatti, dopo aver ottemperato al dovere di una preghiera, o essersi fatti almeno
il segno di croce con l’acqua santa, erano invogliati ad assaggiare la
pietanza, oltre che dai vapori e dagli olezzi, anche da uno striscione che così
spiegava:
“Vieni
a Ciaccolo, paese del broccolo.
E’
gustoso e genuino, saporito e nutriente
Chi l’assaggia non si pente.
Pure i morti
fa svegliare, è una carica, una miccia...
La sua fine
sai qual é? cotto nella Bruccusiccia!”
Sotto il portico, che faceva parte dell’imponente edificio del Municipio,
si dava gratis anche del corposo vino rosso, versato in bicchieri di carta,
o in altri di vetro che i convenuti si erano portati da casa. L’allegria
era dappertutto. Vera o voluta. La banda musicale, da un lato della piazzetta,
intonava musiche e marcette.
Seduti su
panche di legno, nella vicina osteria, un gruppo di uomini, già brilli,
intonavano canti in dialetto. E ridevano, e si nascondevano dietro il bicchiere,
come vergognandosi di dare spettacolo. Uno di loro, sudato e dal viso rosso,
cantava sgangheratamente; poi, salito in piedi sulla panca per brindare, alzava
il calice indirizzando saluti ai passanti. Subito dopo prendeva a ridere convulsamente,
piegandosi in due e rischiando di cadere, dato lo scarso equilibrio sulle gambe
malferme. Alla fine dell’esibizione, i suoi compagni sbilanciarono la
panca per farlo cadere e lui rotolò a terra, si spaventò ed imprecò,
si rialzò, ripulendosi i vestiti dalla segatura che sempre permane nei
locali dove dei liquidi possono far scivolare gli avventori. Poi, passata la
paura, fu ripreso dalla voglia di ridere. Le sue sonore sghignazzate contagiavano
gli amici che si davano pacche sulle spalle e si sbellicavano insieme a lui.
La loro vergogna, ad un certo livello di ubriacatura, era cessata e, ormai senza
nessun freno inibitore davano spettacolo di sé. Sceglievano, potendo
farlo, di essere giulivi e felici come bambini; forse anche volutamente stupidi,
se questo poteva servire ad allontanare le ansie di ogni giorno. Interpretavano
quel ruolo gioioso, aiutati dall’euforia rubata al vino, e compivano un
atto liberatorio che restituiva loro, per quella breve parentesi, ingenuità
e allegrezza.
Il loro canto
ripetuto era questo:
“Fa
cimmoce ‘nu biccchiere
facimmocello ma”
che mo’ tenimrno
‘o tiernpo
e dimani no…
Ubriacati tu
ubriacati tu…”
Fortuna,
passando di lì, udì senza gradini, il chiasso e la musica. Camminava
svelta tra la folla fino a quando suo zio la trattenne per un braccio e le disse:
“Vediamo
i balli”.
“Va bene”, accettò lei senza entusiasmo.
Il suo sguardo
andava alle donne vestite col costume tradizionale, illeggiadrite da merletti,
pizzi e dalle movenze morbide della danza. Le osservava ma pensava ad altro,
all’idea fissa che le aveva tolto la pace. Sembrava tranquilla ma aveva
i nervi tesi come corde di violino. Era determinata, pronta ad approfittare
della prima opportunità che le si fosse presentata.
“Non
posso più attendere”, ripeteva a se stessa, “Devo agire subito.
Appena si distrae devo agire”.
Lo zio Gaspare
la guidò verso la basilica. Dentro entrambi attinsero dall’acquasantiera
e si fecero il segno di croce. Di fianco a loro la madonna Assunta, al cui culto
era dedicata la chiesa, aveva bagliori di fiamme di candele sul volto.
“Ti
devi comunicare?” chiese lo zio.
“Si,
ma prima mi confesso”.
L’uomo
uscì e la ragazza si avvicinò al confessionale. All’interno
del luogo di culto i fedeli erano già seduti e l’ennesima Santa
Messa era iniziata da poco. Dopo le confessioni e le comunioni il sacerdote
sarebbe uscito in processione e avrebbe benedetto i paesani, la maggioranza
dei quali era fuori in attesa. La ragazza si inginocchiò mentre lo zio
era già diretto al bar dell’angolo dove l’avrebbe aspettata.
Lì sedette vicino ad alcuni suoi compari che bevevano vermouth e lo salutarono.
“Come
va don Gaspare?”
“Non
c’è male. E voi?”
“Bene.
La cena l’abbiamo avuta, il vino pure. Non ci possiamo lamentare”.
“Oggi
tutto gratis!”
“Non
vedo vostra nipote!” disse il più anziano del gruppo.
“E’
in chiesa. Prega”.
“Brava
e bella figliola, quasi in età da marito”.
“A
diciotto anni?” s’irritò lo zio.
“E
quando?..”
“Più
tardi è meglio è!”
“Senza
offesa, don Gaspare, ma non illudetevi che un fiore così possa farvi
compagnia ancora per molto. I pretendenti ci sono e la ragazza merita un buon
partito”.
“Di
che pretendenti parlate?”
“Non
vi allarmate”, rispose il compare, e per imbonirlo chiese:
“Che
prendete da bere? che vi offro?”
“Niente...
Che volevate dire prima?”
“Nulla
di male. Vostra nipote è bella, voi siete geloso e... Dio la deve guardare”.
“Dio?”
“E
come no?”
“Io,
io la devo guardare... E’ mia la responsabilità!”
“E
chi lo nega? In paese tutti lo diciamo. State facendo meglio di un padre per
lei. Ancora la mantenete agli studi. Che scuola frequenta adesso?”
“Dopo
il diploma sta facendo un corso di tecnico di radiologia medica. La scuola è
a Cassino e deve prendere il treno alle sei di mattina. Il sacrificio c’è,
ma lei, irremovibile, ha voluto scegliere questa strada”.
“I
giovani oggi fanno quello che vogliono. Ma sapete che vi dico? Fino a che studiano
vuol dire che hanno pochi grilli in testa”.
“Quanto
a questo”, rispose l’uomo con orgoglio, “non mi posso lamentare
di mia nipote. Sta sempre con la testa sui libri. L’estate passata ha
sacrificato pure le vacanze per fare una scuola di erboristeria, e ora, in casa,
ci curiamo con le erbe per ogni malanno”.
“E’
un bel vantaggio per voi e la vostra vecchia domestica!”.
“Chi,
Rachele? Rachele è felicissima perché, secondo lei, tra cataplasmi
e tisane, le sono spariti i dolori reumatici”.
“Caspita,
allora è meglio che avere in casa un dottore!”
“I
dottori...” disse Gaspare fermandosi a pensare. “I dottori fanno
quello che possono”.
“Già...”
rispose il compare con tono triste. “Con vostra sorella sono stati di
poco aiuto”.
“Niente.
Nessun aiuto. Non hanno potuto allungarle nemmeno un giorno di vita. La leucemia
l’ha falciata nel giro di tre mesi”.
“Maledetta
malattia!”
“Maledetta
Centrale”. Le
luci della piazza, quattro lampioni sommati alle lampadine a grappoli sopra
le bancarelle, schiarivano i volti dei passanti e rendevano fosforescenti le
camicette bianche delle ballerine in costume regionale. Don Gaspare s’alzò.
Salutò i compari, si fermò a comprare torrone e zucchero filato
e pensando con tenerezza alla nipote, si diresse verso la chiesa.
Le stesse
persone che prima aveva visto, erano ancora dentro, per lo più donne
anziane intente a dire il rosario. Il fervore della preghiera non impediva loro
di voltarsi ogni volta che qualcuno entrava. Gaspare le osservò e tra
loro non vide Fortuna.
Si avvicinò
al sagrestano, che cambiava i ceri consumati davanti alla statua della Madonna
Assunta, e chiese:
“Mia
nipote è uscita?”
“Si.
Da molto”.
“Quanto
tempo fa?”
“Da
più di mezz’ora. Ha acceso un lumino al cuore di Gesù ed
è uscita”.
L’uomo
fu di corsa fuori. Si diresse con apprensione verso il bar. Non capiva come
mai, seppure Fortuna gli era andata incontro, non si erano incontrati.
Ai tavolini
i compari non c’erano più. Chiese allora al barista:
“Mia
nipote è venuta a cercarmi?”
“No.
Non l’ho vista”.
“Se
viene, ditele per piacere che mi aspetti, che non si muova di qui. Altrimenti
capita che io cerco lei e lei cerca me, e con tutti questi forestieri e questa
confusione va a finire che non ci troviamo più”.
Don Gaspare
tornò in chiesa. Si rivolse, questa volta, direttamente alle vecchiette.
“Avete
visto mia nipote?”
“E’
uscita appresso a voi”, rispose una di loro.
“Quando?
Poco fa?”
“No.
La prima volta che siete entrato. Appena voi siete andato via, lei si è
fatta il segno della croce, ha acceso un lumino ed è uscita svelta”.
“Non
si è comunicata?”
“No
è uscita subito”.
Il senso
d’angoscia di Gaspare aumentò. Buttò via con un gesto di
stizza il torrone e lo zucchero filato che gli si era sciolto tra le mani rendendole
appiccicose.
Ripensò
ai discorsi dei compari, così sibillini, forse detti per fargli capire
che sua nipote aveva un corteggiatore, o un fidanzatino, o comunque era stata
vista in compagnia maschile.
“Se
la gente imparasse a parlare chiaro!” disse tra sé mentre faceva
il giro della piazza. Andò per i vicoli, chiese a destra e a manca. Nessuno
seppe dirgli niente di utile. Non l’avevano vista né da sola, né
in compagnia. Ritornò al bar, ma pure lì di Fortuna non c’erano
notizie.
Corse a casa.
Rachele,
la contadina anziana sua governante tuttofare, strillò appena seppe che
la bimba era sparita. Poi si calmò e disse che, la bimba, così
la chiamava, era da tempo taciturna e triste.
“Zitta!”
la rimproverò Gaspare.
“Voi
mi avete chiesto ed io vi ho risposto”, si difese lei.
“Ti
avevo domandato se Fortuna era tornata, non ti ho chiesto se era triste o allegra.
Sono venuto qua con la speranza di trovarla e tu mi fai l’uccello del
malaugurio!”.
“Scusate...”
“Niente.
Non fa niente! Capisci che sono agitato... Vado di nuovo in paese a cercare.
Tu non muoverti e se arriva non la fare più uscire!”.
Il parroco, il sagrestano,
i compari, l’amica Clelia, le vecchiette della chiesa, il barista; tutti
i conoscenti furono ripetutamente interrogati dall’uomo ansioso di trovare
anche una minima traccia di sua nipote. Non se ne sapeva più nulla dalle
ore venti di quella sera e, dopo mezzanotte, don Gaspare fu convinto dal parroco
a recarsi dai carabinieri. Lui si sentiva responsabile nei confronti della ragazza,
più che un padre, e si rammaricava di non averla sorvegliata abbastanza.
I carabinieri
cercarono di confortarlo. Lo avevano visto arrivare trafelato e sconvolto.
“E’
colpa mia” aveva detto, “dovevo restare con lei in chiesa”.
“Sono
cose che succedono”, disse il carabiniere che iniziò a scrivere
la denuncia, “E voi, a settant’ anni non potete restare appiccicato
a vostra nipote. Poi, vedete, se una ragazza vuole scappare trova mille modi
per farlo”.
“Scappare?
Perché dice scappare?”
“Allora
che altro può essere?”
“Non
lo so che può essere, ma conosco mia nipote e so che non si sarebbe mai
allontanata di sua volontà!”.
“In
queste cose, don Gaspare, non si può mai dire... In mezzo alla folla
potrebbe aver incontrato, chessò, un’amica, un corteggiatore. Può
essere che l’abbiano convinta ad andare a mangiare una pizza... Può
essere che stia già tornando a casa”.
“Magari
fosse così! Mia nipote però non si è mai allontanata senza
avvisarmi. Mia nipote ha sempre avuto giudizio...Voi dovete cercarla, non pensare
che è scappata! Mia nipote non è scappata!”
“Stia
tranquillo che la cerchiamo. Siamo già attivati. Stia tranquillo e mi
dica nome e cognome della ragazza”.
“Fortuna
Fasano”.
“Anni
?“
“Diciotto
e mezzo”
“Altezza?”
“Un
metro e sessantaquattro-sessantacinque...”
“Colore
degli occhi?”
“Verdi”.
“Capelli?“
“Lunghi
e rossicci”.
“Rossa?”
“No,
bionda con i riflessi rossi. I suoi capelli sono molto lunghi e mossi”.
“Ondulati...
Ha una sua foto?”
“Qui
no. A casa ce l’ho”.
“Domani
porti almeno un paio di ritratti. Trasmetteremo la sua immagine in tutt’Italia.
Ora vada a casa e cerchi di riposare. Ci vediamo domani. Buonanotte”.
Don Gaspare
ritornò a casa affranto e stanchissimo, era passata l’una e mezza
dopo mezzanotte. Rachele l’aspettava ancora sveglia.
“Ci
sono notizie?”
“Niente.
Sono stato dai carabinieri”.
“Mamma
santissima! Dov’è la bimba?”
“Questo
lo sa Iddio... Speriamo che non l’abbiano presa”.
“Presa?...
e chi?”
“Chi,
chi!... Uno dei tanti balordi che vanno in giro a fare danno! Stasera in paese
era pieno di stranieri; persino quelli di fuori... extracomunitari! Di ogni
colore... Che ne sappiamo come ragiona certa gente? Dio non voglia che approfittino
di lei, della sua ingenuità”.
“Madonna
Assunta aiutateci!” disse Rachele inginocchiandosi davanti ad un quadretto
della Vergine.
“Prega...
Giusto... Pregare... E’ solo questo che possiamo fare. Pregare e sperare...”
“Volete
un po’ di brodo caldo? State a digiuno”.
“No.
Mi butto sul letto a passare una nottata da incubo. Tu pure va’ a riposare
’’.
Rachele uscì
dalla cucina ed andò nella camera di Fortuna. Cercava lì dentro
una piccola speranza, un indizio che la aiutasse a capire i motivi della sparizione.
Dall’armadio non mancava nulla, o almeno così le sembrava. Mise
sul letto tutto quello che trovava nei cassetti: abiti, biancheria, calze, pancere...”
Si chiese come mai una ragazza magra ne avesse bisogno. Le venne in mente il
corpicino esile della bimba. Ricordò che ultimamente dimenticava spesso
di darle il bacetto prima di uscire e quando tornava a casa. Era cambiata, era
sempre pallida e triste... Perché?
Non riusciva
a dare una spiegazione al mutamento d’umore della ragazza. Le voleva bene
come ad una figlia. L’aveva allevata già da quando c’era
sua madre, e poi quando era rimasta orfana l’aveva amata anche di più.
Ripensò al periodo tragico della malattia e pianse al ricordo di tanta
sofferenza. Si sdraiò poi sul letto con tutti i vestiti e restò
sveglia per tutta la notte.
.
06) Ostia Antica 16 settembre 1990.
Il
vecchio, già abituato ad alzarsi presto, si levò prima del solito.
La figlia, che era ancora a letto, lo sentì uscire all’alba. Poi
dai muggiti delle bestie capì che suo padre stava trafficando con i secchi
per raccogliere il latte.
“Benedetto
uomo”, pensò. “Senza di lui non saprei come cavarmela.
Se non ci fosse sarei in grosse difficoltà, specialmente con i bambini”.
Era lui infatti
che provvedeva alle piccole e grandi necessità della famiglia. Faceva
il caffè, poi andava a prendere il latte caldo appena munto. Raccoglieva
le uova nel pollaio e rientrava in casa prima che la figlia e il genero si fossero
alzati per andare al lavoro.
Anna, sua
figlia, era impiegata statale e alle otto doveva essere in ufficio. Nando, suo
genero, lavorava presso il vicino aeroporto di Fiumicino e usciva presto pure
lui.
I due figli
della coppia restavano col nonno. Finivano di fare la colazione nella grande
cucina e poi insieme al vecchio giocavano sui prati davanti alla casa, oppure
lo aiutavano ad accudire alle bestie.
Dall’autunno
in poi invece andavano tutti e tre insieme a prendere l’autobus della
scuola. Il bivio, dove il mezzo comunale passava, distava un chilometro dalla
loro casa e occorreva uscire per tempo.
Quella mattina del
sedici settembre, era il primo giorno di scuola e il vecchio anticipò
tutto. Andò nei boschi mezz’ora prima, svolse i soliti lavori,
e poi uscì con i nipoti.
Durante il
tragitto a piedi i piccoli Marco e Valeria, che avevano otto e undici anni,
giocavano a nascondersi, e approfittando del fatto che il nonno non riusciva
a correre quanto loro, lo distanziavano per andarsi a rintanare tra le rovine
antiche. Spesso sconfinavano nella zona protetta degli scavi, dov’era
proibito introdursi; e il vecchio li chiamava minacciando punizioni.
“Prima
o poi voi finirete dalle teste di pezza!” disse loro il nonno quella mattina.
“No”
rispose Valeria. “Io dalle monache non ci vado!”
“Se
dico a vostro padre gli scherzi che mi combinate quello vi rinchiude in collegio”.
“Nostra
madre non ci manda dalle teste di pezza! Lei c’è stata da piccola,
un giorno me lo ha detto, e mi ha pure detto che a noi non ci manda”.
“Invece
sì” disse il vecchio.
“Non
ci manda, capito? Non ci manda!”, stillò la bambina, e riprese
a correre per raggiungere suo fratello che le faceva dei cenni di richiamo da
dietro le Terme di Nettuno. Insieme a lui poi andò a mimetizzarsi tra
il fogliame di un cespuglio sono dietro una antica macina dell’epoca romana.
Il nonno, stanco
di chiamarli, li lasciò lì e prese a camminare a passo veloce
per il sentiero che conduceva al bivio.
“Nonno
aspettaci!” stillò Marco.
“Sta
arrivando l’autobus!” rispose lui senza aspettarli, e quelli corsero
velocissimi fino a che lo raggiunsero. Dopo poco salirono sul mezzo che li portò
a scuola.
Aveva tanto da fare
il vecchio. Lo chiamavano tutti Zola anche se il suo vero nome era Guglielmo.
Zola era il soprannome che gli avevano dato a Milano, quando vi era andato in
cerca di lavoro. Lì era rimasto cinque anni a lavorare come cameriere
presso una famosa trattoria frequentata da artisti, dove aveva guadagnato bene,
anche se si era massacrato di lavoro.
Aveva lavorato
per cinque anni senza mai godere di un giorno libero. Rifiutava sistematicamente
di prendersi la sua giornata di riposo e il venerdì, quando il ristorante
chiudeva, restava di guardia e svolgeva tutta una serie di preparativi per il
giorno seguente. Riempiva le bottiglie di vino della casa, travasandolo dalle
botti; un vino rosso dell’Oltre Pò Pavese che la maggioranza degli
avventoi consumava. Faceva poi arrivare i fornitori di bibite e alimenti, e
provvedeva a sistemare la merce nel magazzino o nella grande cella frigorifera.
Nel tempo che gli restava libero da incombenze leggeva: libri di geografia e
di filosofia. S’era acculturato in particolar modo su alcuni argomenti
che lo interessavano di più.
Il suo principale
lo pagava a parte per il lavoro del venerdì e lo faceva ben volentieri
perché da quando c’era Zola a custodire il ristorante, non avevano
più subito alcun furto.
Lui, Zola, non spendeva
nulla per vivere. Dormiva in una delle stanze messe a disposizione dal principale
ai suoi dipendenti. Erano piccoli appartamenti di ringhiera, col bagno in comune
in fondo al balcone. Stavano al primo piano, proprio sopra al locale dove si
pranzava.
“Le
vecchie cascine abbadesse”, così si chiamava il ristorante che
occupava una vasta area del piano terra sempre piena di avventori. Nel periodo
estivo molti tavoli si apparecchiavano in un grande giardino, col pergolato
di vite americana, sulla parte posteriore dell’edificio. La facciata invece,
racchiudeva a semicerchio un cortile interno dove si fermavano i fornitori a
scaricare la merce e dove s’affacciava, dilato, anche una piccola bottega
di fornaio. L’unico spazio non occupato dalla trattoria.
Vitto e alloggio
permisero a Zola di accumulare, in cinque anni, una manciata di milioni; e quando
ne contò abbastanza per il suo scopo, decise di ascoltare il richiamo
della campagna e lasciare Milano, che pure amava. Considerando quanto generosamente
l’avesse accolto da subito, era grato a Milano, però era pur sempre
una città, e lui preferiva la campagna. Gli mancavano i prati verdi,
la vita tranquilla, il silenzio dei boschi, e lavorò per riconquistarli.
Col gruzzolo
che aveva in banca comprò un vecchio cascinale nella campagna di Ostia
antica, sua zona d’origine, vicino agli scavi. La casa ebbe necessità
di qualche lavoro di manutenzione. E lui fece tutto da sé poco per volta.
Gli restava da saldare un piccolo mutuo, per completare il pagamento, e una
volta sistemato e alloggiato nel cascinale, pagò le rate con i guadagni
della vendita del latte, del formaggio e delle uova di sua produzione. Oltre
a questo, raccoglieva funghi di buona qualità che i ristoranti del luogo
gli pagavano bene.
Di Milano
gli rimase un buon ricordo e il soprannome Zola. Era stato il suo principale
a chiamarlo così, perché spesso lo vedeva mangiare pane e gorgonzola
invece di pranzare col ben di Dio che veniva fuori dalla cucina del ristorante.
Partiti i nipoti,
Zola non aveva certo il tempo di annoiarsi. Vagava per i campi in cerca di erbe
medicinali, poi si dedicava ad ultimare le cure alle sue bestie, a zappettare
l’orto, alle faccende domestiche. Ignorava cosa fossero i problemi della
terza età. Aveva una salute di ferro e si sentiva utile, ed era utile.
Questo lo manteneva in forma.
Si era sposato
tardi, al ritorno da Milano. Quell’unica figlia l’aveva avuta dopo
i quarant’ anni. A settanta era rimasto vedovo e la figlia con tutta la
famiglia era andata a vivere con lui in campagna.
Quel giorno riempì
il suo cestino di erbe che avrebbe poi fatto dissecare e raccolto in sacchetti
di garza per l’inverno allo scopo di curare gli acciacchi della famiglia:
finocchio, lavanda, malva, marrubio, bardana, sambuco, eucalipto. Così
ogni febbre, bronchite, reumatismo e indigestione, aveva pronto il rimedio naturale.
Una tisana in genere metteva tutto a posto. Il medico in casa sua veniva chiamato
solo in casi eccezionali.
Dei funghi,
sfuggiti alla sua prima ricognizione dell’alba, sporgevano tra il fogliame
umido ai piedi di un albero. Non li raccolse perché aveva già
fatto le sue consegne ai ristoranti del paese. Scelse invece solo erbe, odorandone
ognuna dopo averne strofinate le foglie o le bacche tra pollice e indice. Si
compiaceva di questi semplice gesti e viveva godendo appieno del suo rapporto
con la natura.
Quel prezioso
vecchio, generoso e buono, non sospettava di essere destinato a vivere, al tramonto
della sua esistenza, un’avventura di grossa portata come quella che il
destino gli stava preparando.