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In
paese tutti ormai sapevano della sparizione della nipote di don Gaspare. Ma
anche nelle zone vicine si conosceva la notizia perché stampa e radio
locali l’avevano ripetutamente comunicata invitando la popolazione a collaborare
nelle ricerche; a raccontare ogni minimo particolare interessante, ogni sospetto
o ipotesi.
S’era
stampato un manifesto a colori con la foto di Fortuna, ed era stato affisso
dappertutto. Anche nelle città distanti centinaia di chilometri.
Si era anche
diffusa una certa psicosi, con dicerie su immaginarie tratte di bianche, o su
rapimenti da parte di slavi con intenzioni di avviare giovani ingenue alla prostituzione.
Alle ragazze fu proibito di uscire di sera e di parlare con stranieri.
A casa di
Fortuna però, si avevano forti dubbi sull’ipotesi del rapimento.
Ed era Rachele a nutrirli, mentre Gaspare, al minimo accenno all’argomento,
la zittiva. Lui preferiva credere che la nipote non avrebbe mai volontariamente
lasciato la casa in cui era amata, vezzeggiata, accudita. Come accettare che
se ne fosse andata lasciandolo di proposito in quell’angoscia? Che le
aveva fatto per meritare tale punizione?
Rachele invece,
donna pratica e intuitiva, aveva da tempo sospettato che qualcosa tormentasse
la bimba. Dopo aver trascorso molte notti a piangere, s’era ricordata
di un particolare oggetto, un plaid di lana fatto ai ferri da lei per la ragazza.
Lo cercò con impegno, andando a guardare in ogni scaffale, in ogni cassetto.
Persino in cantina dove invece aveva trovato un salvadanaio rotto e senza più
i risparmi che conteneva. Erano novecentomila lire in banconote di diverso taglio.
Questo particolare confortò la donna, perché allontanava l’ipotesi
del rapimento, portandola a credere che si trattasse invece di una fuga volontaria,
magari con un innamorato, o qualche amica in cerca di avventure. Un colpo di
testa, una ragazzata... Era questa la versione che preferiva, e attendeva un
giorno o l’altro di vedere la ragazza tornare a casa. S’inginocchiò
assorta davanti al quadro della Madonna.
“Che
fai, preghi?”
La voce di
don Gaspare la distolse dai suoi pensieri. S’alzò e disse:
“Ho
scoperto una cosa, anzi due...”
“Che
cosa?”
“La
coperta di lana, quella azzurra a fiori bianchi che avevo fatto ai ferri..”
“Ebbè?”
“Non
c’è. Non l’ho trovata da nessuna parte. Ho cercato anche
in cantina e, sapete che cosa ho visto?”
“Su,
parla, che hai visto?”
“Il
salvadanaio, quello grande, di coccio, rotto e senza soldi”.
“Ne
sei sicura?”
“Eccome!
Sta di là in cucina... Lo potete vedere pure voi”.
Don Gaspare seguì
la donna che gli mostrò i frammenti di terracotta e disse: “Questo
è un segno che la bimba ha preso i soldi per scappare”.
“Zitta!
Non fare pettegolezzi !.. Vuoi mettere mia nipote in bocca a tutto il paese?”
“Io?...Ma
se io ho a cuore solo il suo bene!”
“Allora
taci. Non mettere il carro davanti ai buoi! Che vuoi dire aver trovato il salvadanaio
rotto? Può essere che abbia preso i soldi per comprarsi un oggetto...
chessò... un vestito!.. o peggio, che li abbia prestati a qualcuno!”.
“E
il plaid?”
“Cercalo
meglio. Vedi nei bauli, negli armadi... Non hai insistito perché le comperassi
il corredo?.. Cerca in mezzo a tutta quella biancheria. Ne avrai per giorni...
Se anche non lo trovi, però, non venirmi più a raccontare ‘ste
fesserie. Come se una ragazza che fugge pensasse a portarsi dietro una coperta.
A che pro?...”
“Va
bene, va bene. Vi devo dire però che l’amica di Fortuna, quella
Clelia, ha detto che domani ci viene a trovare”.
“E
quando?”
“All’uscita
dal lavoro, verso le cinque. Vuole raccontarci degli ultimi giorni che è
uscita con Fortuna e del fatto che vostra nipote non stava bene, non sembrava
interessarsi a niente”.
“Ma
quando te le ha dette queste cose?”
“Stamattina,
al telefono. Mi ha pure detto che la bimba doveva avere, secondo lei, qualche
dispiacere, una preoccupazione che però non confidava”.
“Doveva
avere, non doveva avere!” esplose don Gaspare. “Ma di preciso, di
sicuro... che cosa sa questa Clelia?”
“Non
lo sa spiegare... Si tratta di sensazioni...”
“Insomma..,
noi con le sue sensazioni abbiamo la speranza di trovarla?”
“No,
ma si sente una campana, poi un’altra, poi si ragiona sulle idee...”
“Io
non ci voglio parlare con questa Clelia. Parlaci tu. Fatti dire quello che sa,
se qualcosa sa... Delle sue ‘sensazioni’ io non so che farmene”.
Don Gaspare
uscì. Si sentiva irritato come ogni volta che udiva pareri non richiesti
di conoscenti del paese. Andò ancora dai carabinieri sperando di sentire
da loro informazioni confortanti su come procedevano le indagini. Poi, senza
nessuna buona novità, fece un breve giro in piazza, salutò un
paio di compaesani e con molta tristezza si diresse verso casa.
Il mattino
dopo accese la radio come faceva ormai spesso sperando di avere notizie dai
programmi locali, e ascoltò con interesse alcune interviste che si stavano
mandando in onda. Prime fra tutte furono trasmesse le dichiarazioni di Clelia,
l’amica di sua nipote, che aveva detto le stesse cose raccontate a Rachele.
Poi fu chiamato in causa il parroco del paese che lodò la serietà
di Fortuna Fasano, enumerò le sue virtù e la sua dedizione allo
studio. Infine furono intervistate due persone, due amici minorenni, che partecipavano
alla trasmissione tramite il telefono, e dissero di aver visto la ragazza, il
giorno della sparizione, in macchina con un uomo e una donna di colore. I due,
intenzionati a restare nell’anonimato, rifiutarono di dire altro. Assicurarono
però che la persona vista era proprio Fortuna. Ne erano certi poiché
la conoscevano. Avevano anche notato lo stesso vestito azzurro che aveva indosso
mentre poco prima passeggiava con lo zio vicino alla chiesa.
.
08) Ostia Antica 30 settembre.
Pinoli,
cardi, more, funghi, e liofilizzati di carne e di frutta. Questi erano gli alimenti
che le assicuravano la sopravvivenza. Già dai primi progetti di fuga
lei aveva contato sulla propria capacità di calcolare un giusto apporto
nutritivo per il suo organismo. Aveva un tetto. Aveva le scorte, e un bosco
intero dove cercare e raccogliere ciò che le serviva. Nessun timore la
sfiorava se non quello legato al futuro ormai prossimo. L’incognita dell’evento
che doveva vivere, quello sì la preoccupava.
La natura
che aveva intorno era completamente leggibile e vivendoci a contatto Fortuna
si sentiva bene, a proprio agio, serena. Era l’altra natura, quella sconosciuta,
quella oltraggiata dall’uomo, ciò che le incuteva paura. Ignorava
i principi secondo i quali quella natura snaturata poteva agire. Sapeva che,
priva di leggi, essa reagiva alle manipolazioni dell’uomo in modo imprevedibile:
senza né codici, né regole, né cultura. Da ignorante. Come
è incolto chi prima stravolge un delicato equilibrio e poi si meraviglia
dei risultati negativi. O li nega. Si benda gli occhi per vedere e nega. Infila
la testa sottoterra per annullare il pericolo. Rimane incollato con la testa
Vi sotto prima ancora di essersi accorto della valanga che lo sommergerà
per sempre.
Fortuna desiderò
che il tempo che mancava per arrivare al giorno della verità trascorresse
in un lampo. Poi si pentì. Cercò di pensare a cose passate. Il
futuro la spaventava e non voleva saperne. Sedette sulla coperta con le gambe
incrociate e si dondolò ripensando ad una nenia che le cantava sua madre
da piccola per farla addormentare.
“Dormi
dormi questa sera, non c’è vento né bufera,
dormi dormi bimba
bella, guarda in cielo c’è una stella.
Serve al babbo per
tornare, e alle barche in mezzo al mare,
e se il sonno viene
giù la stellina non c’è più”.
Dondolandosi
al ritmo di quel canto si addormentò sognando di essere a casa, nella
sua abitazione di Ciaccolo, con sua madre intenta a sfaccendare cantando. Era
allegra mentre la mattina le preparava la merenda per la scuola. E prima di
farla uscire la pettinava a lungo con cura. Le annodava i capelli in grosse
trecce e l’accarezzava con le mani leggere che emanavano un odore grato,
come quello del pane appena sfornato. L’odore, il profumo di quelle mani
l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Era una sensazione che la portava
a pensare che nulla finiva davvero. Avvertire quell’odore come se sua
madre fossi lì presente era un conforto per la sua anima e i suoi sensi.
Era come ritrovare un angolo che apparteneva solo a lei in una dimensione fuori
dal tempo. Spesso faceva quel sogno e al risveglio avvertiva ancora per lungo
tempo quel profumo.
All’alba Fortuna
si alzò e uscì. S’inoltrò cauta in quella pane di
bosco non visibile dalla strada e raccolse ogni cosa utile ad alimentarsi. Pochi
avrebbero immaginato che in un posto così, a pochi passi dalla città,
esistesse una insospettabile miniera di prodotti vegetali. Fortuna se ne avvantaggiava
in quella luce ancora grigia del primissimo mattino. Colmava la sua ampia gonna,
alzando il lembo davanti, con crescione, o con dente di leone che mangiava crudi
per sfruttare al massimo i sali di potassio e le vitamine che contenevano. Lavava
le foglie in una fontana ancora funzionante al piano terra della fabbrica e
poi saliva nelle sue stanze. Aveva con sé anche una popote da campeggio
nella quale cuoceva ciò che era impossibile mangiare crudo. L’ortica,
per esempio, era da lei consumata a volontà una volta cotta e condita
con succo di mandarino acerbo.
Quasi ogni
giorno accendeva un po’ di legna secca, nella parte posteriore dell’edificio
e si preparava il pasto: cardo, rucola, asparago, borragine. Spesso mescolava
tutto insieme a un liofilizzato di carne che aggiungeva sapore e sostanza ai
vegetali. E come frutta non mancavano i rovi pieni di more dolcissime, ricche
di zuccheri, sali di calcio, potassio e vitamine. Oppure i corbezzoli dal sapore
agrodolce, o i mandarini di cui beveva il succo. Di mandarini ce n’erano
in abbondanza. Erano della qualità giapponese e pendevano da due generosi
alberi che qualcuno molti anni prima aveva piantato accanto all’ingresso
laterale della fabbrica, quello abitualmente usato da lei per entrare e uscire.
Era un ingresso formato da un portale ad arco oltre al quale c’era una
sala luminosa con i pavimenti di marmo. In fondo poi una parete apriva altri
due archi con due porte più piccole che introducevano in due ambienti.
A destra due ampie finestre, da cui entrava la luce, interrompevano la facciata
dell’edificio. A sinistra, una scalinata in marmo compiva una curva in
salita che portava al piano superiore, dove altre porte davano su altri locali
separati. La zona notte di Fortuna stava a sinistra e lì c’era
la stanza rossa con le scritte in francese.
Era andata avanti
nella sua traduzione notturna ed aveva memorizzato altre parole:
“ENFIN JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT ET IL ÉTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE. ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE... ”
(Finalmente, dopo mezzogiorno, il sole s‘eclissa tra i primi alberi del “boschetto” e lo spigolo dell‘edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione dell’edificio, che enorme, non riesce però a invadere la calma architettura della flora qui esistente… )
Non
capiva ancora il senso di quelle frasi e cercava di conquistarlo poco per volta.
Di tempo ne aveva. Avrebbe trascorso ancora molte notti in quel luogo, in quell’isola
di pace trovata per caso e in cui nessuno andava a importunarla.
Il giorno della
sua fuga non avrebbe immaginato di poter trovare un così comodo e sicuro
alloggio. Quel giorno, prima di uscire con lo zio, preparò una sacca
da viaggio infilandovi la coperta di lana, qualche indumento, oltre a un accendino,
la popote, il pettine, l’ago, il filo e tre libri. Pensò che con
i soldi presi dal salvadanaio, una volta arrivata a Roma, avrebbe comprato un
sacco a pelo, dello zucchero, del sale, e novanta bustine di liofilizzati di
carne e frutta. La sacca, nascosta nello sgabuzzino degli attrezzi da giardino,
fu da lei recuperata quando, uscita di chiesa, corse a casa per prenderla.
Proseguì
quindi a piedi fino alla strada provinciale, distante un chilometro e mezzo
da casa sua. Nessuno l’aveva notata. La gente era tutta in paese per la
sagra. Fece l’autostop e fu accolta da una coppia di colore che le diede
un passaggio fino a Latina. Da lì prese il treno per Roma e da Termini
salì sul trenino locale che portava ad Ostia Antica. Aveva inseguito
già dalla stazione di Roma, una comitiva di turisti inglesi diretti agli
scavi. Poteva essere confusa col gruppo e quindi non dare nell’occhio.
Così quando li vide scendere scese tra loro. Chiunque l’avesse
osservata con quei capelli rossicci, la carnagione lattea macchiata di efelidi,
la sacca di juta sulle spalle, l’avrebbe creduta una turista tra i turisti.
Entrò
con gli inglesi fino dentro la zona degli scavi e camminò accodandosi
alla comitiva. Ascoltò con attenzione le spiegazioni che la guida diede
sulla nascita dell’antico porto di Roma.
Apprese che
l’imperatore Tiberio aveva iniziato i lavori per l’apertura di un
canale deviato dalle sponde del Tevere a nord di Ostia. Claudio poi, nel 42
d. C. l’aveva completato iniziando la costruzione del porto, che era stato
terminato da Nerone e ampliato da Traiano da cui prese il nome, tra il 100 e
il 105 d. C.
“Questa è
la Piazza del Foro”, disse la guida ponendosi al centro dei visitatori
inglesi, “che misura duemila metri quadrati, ed è limitata da due
templi: il Capitolium e il Tempio di Roma e di Augusto con la Statua di Roma
dominatrice. Alle spalle del Capitolium vediamo gli edifici commerciali, con
magazzini e botteghe, che continuano fino alla banchina del Tevere. Qui a destra
ci sono i forni, il mulino, le macine, le giare interrate per mantenere fresca
la merce... Mettetevi in fila”, disse poi interrompendosi per meglio organizzare
il gruppo, “perché... se avanziamo nella strada un po’ sconnessa
da sampietrini in dislivello, possiamo notare i solchi dei carri che proseguono
segnando le pietre in linee parallele. E andando ancora avanti troviamo una
serie di case, tra cui la bellissima Casa di Diana, che era poi un albergo,
costruito a più piani, con balconi, e il Thermopòlium, paragonabile
a una moderna trattoria con bancone e sedili per i clienti, dove si servivano
uova sode, fagioli, e ben ottanta vini diversi da condire con miele e spezie”.
I visitatori, proseguirono
ammirando la funzionalità dell’antico porto di Roma, che descritto
dalla guida, pur in un luogo che ancora nascondeva parte delle strutture antiche,
dava comunque l’idea del brulicare di persone tra merci, oggetti e animali
che in quell’epoca vi agivano.
Più
avanti, superato il bellissimo Teatro romano, erano andati oltre le Terme, a
vedere la Sinagoga più antica esistente in Europa; del primo secolo dopo
Cristo, con quattro colonne, un portico, la zona per la preparazione del pane
azzimo e i simboli ebraici sui mosaici.
La Sinagoga
era stata costruita lontano dalla zona centrale e confinava con la doppia corsia
dell’autostrada per Fiumicino, vicino ad una curva. Posto dal quale Fortuna,
guardando oltre la strada, s’accorse del boschetto dietro il quale un
grande edificio semicoperto dai pini attirò la sua attenzione. Pensò
di andarci, e attese di poterlo fare senza essere vista. Restò col gruppo
a camminare tra gli scavi, tornando indietro nel percorso che avevano già
fatto. Nella zona dei templi dedicati a Venere, Cerere Speranza e Fortuna, udì
pronunciare il suo nome dalla guida e pensò che forse quell’omonimia
era un segno del destino. Si staccò perciò dagli altri ed entrò
in uno dei templi rimasti ancora quasi intatti, quello cioè dedicato
alle sfere planetarie. Lì resto fino a che venne buio.
Uscì
da quel nascondiglio quando, ormai di notte, nessuno più sarebbe passato
nelle vicinanze. Si diresse dalle parti della sinagoga. Scavalcò la recinzione
degli scavi, attraversò le due corsie dell’autostrada e fu dentro
il boschetto. Poi proseguì per il grande edificio che stava immerso tra
i pini.
La fabbrica
l’accolse come una casa incantata che sembrava parte della natura. Quella
che lei amava e conosceva: i boschi di eucalipti, i pini, il pitosforo assiepato
sotto gli alberi alti. Nessun male poteva derivarle da quella natura intatta,
dall’aria pura e balsamica per l’odore di resina. Nessuno ancora
aveva stravolto le leggi del bosco. Se lei fosse nata lì e avesse sempre
abitato quei luoghi, nulla di male le sarebbe accaduto.
S’inoltrò
all’interno dell’edificio, salì su per la scala di marmo
e scelse subito la stanza rossa. Si sdraiò sul suo sacco a pelo e s’addormentò
sentendosi finalmente al sicuro.
Il titolo a grandi caratteri era sulla prima pagina del quotidiano locale e diceva esattamente:
“Trovato il probabile rapitore di Fortuna Fasano, è un nigeriano di venticinque anni”.
L’articolo poi proseguiva chiarendo i particolari di quell’arresto:
“Ieri, i carabinieri di Latina, hanno trattenuto in stato di fermo Lamin Moundou, un immigrato della Nigeria. Forti sospetti incombono su di lui. Pare che la sera della scomparsa due testimoni abbiano visto la ragazza in sua compagnia in macchina. Gli investigatori sono risaliti all’uomo di colore in base al numero di targa della sua automobile. Una perquisizione improvvisa nell‘abitazione del sospettato ha dato, secondo quanto affermano gli inquirenti, esito positivo. Oggi stesso Lamin sarà interrogato dal magistrato “.
Il
bar della piazza era pieno di gente. La lettura del giornale avveniva pubblicamente.
I ciaccolesi si sentivano molto coinvolti da quella sparizione. Commenti, ipotesi,
propositi di vendetta e storie di maniaci del passato, intrattenevano gli avventori
del locale. Qualcuno prospettò l’ipotesi che la ragazza fosse stata
uccisa e poi buttata nel Garigliano. Altri si dissero certi che era ancora viva,
magari venduta ad uno sceicco o indotta a prostituirsi in qualche paese straniero.
Il giorno
dopo ulteriori ragguagli sulla vicenda venivano dalle pagine del quotidiano:
“E’
un braccialetto l’oggetto trovato in casa di Lamin Moundou. Sempre più
compromesso il giovane di colore”.
“Gli
investigatori, dopo un confronto con i parenti della ragazza scomparsa la notte
della sagra, hanno accertato che il braccialetto era quello della loro nipote.
L’oggetto è stato riconosciuto anche dall’orefice del paese,
che a suo tempo vi aveva inciso le iniziali di Fortuna Fasano.”
Gaspare e la sua domestica, dopo il riconoscimento, congedati dai carabinieri
del paese, erano tornati a casa dove frotte di giornalisti li avevano intervistati,
scattando fotografie e chiedendo nuovi particolari sulla vicenda. Don Gaspare
ad un certo punto s’era inquietato ed aveva scacciato tutti in malo modo.
Rachele nel frattempo era andata nella sua stanza.
“Che
hai, stai poco bene?” chiese Gaspare.
“Sono
confusa. Non so più che pensieri fare riguardo alla povera bimba”.
“Che
fai, piangi adesso?”
“Scusate”,
disse la donna, “non posso credere che le abbiano fatto del male!”.
“Spero
che quel Lamin non menta... Nega ogni accusa. Dio voglia che abbia ragione”.
“E
il braccialetto, come se lo trovava in casa?”
“Secondo
lui, s’è sganciato mentre lei era in macchina. La chiusura è
infatti difettosa...”
“Ma
la bimba...” chiese Rachele fermandosi un attimo per soffiarsi il naso,
“La bimba avrebbe avuto il coraggio di salire nella macchina di un forestiero?”
“Credo
di no”, rispose Gaspare, “ma a questo punto sono senza orientamento
pure io. Dalle testimonianze dei due ragazzi che hanno visto per ultimi Fortuna,
l’uomo non era solo in macchina. E anche lui dice che insieme c’era
una certa Helen, la sua fidanzata”.
“E
dov’è questa donna? Perché non viene a testimoniare?”
Lui dice
che è partita per la Nigeria e si trova presso la sua famiglia d’origine”.
“Mamma
santissima, che storia ingarbugliata!…Voi ci credete?”
“Voglio
credere!… La storia che quell’uomo racconta mi illude sul fatto
che mia nipote sia viva. Anche se non riesco a comprendere perché sia
andata via. Noi la trattavamo bene...Tu le davi affetto e attenzioni. Io ho
fatto il possibile per essere per lei un padre... Perché doveva scappare?”
“Ci
dev'essere un motivo!”, disse Rachele prendendo coraggio per affrontare
un argomento irritante per il suo principale. “Anche se a voi non piace
sentire certi discorsi, io non posso dimenticare che la bimba era pallida, magra,
e... non era più la stessa... Pure la sua amica lo ha detto”.
“Ancora
continui con questa faccenda!”
“Non
vi spazientite, non voglio dire niente di male!.. Solo che forse era stanca,
forse ammalata...”
“Adesso
ci manca anche che ci fissiamo con le malattie!.. Ecchè!... una persona
che sa di essere ammalata che fa, scappa?”.
Rachele, umiliata
per i rimproveri riprese a piangere accorata. Don Gaspare mandò la domestica
a riposare e si ritirò in camera sua per sdraiarsi a pensare. Erano vacillate
le sue certezze sul fatto che la nipote fosse stata rapita. Il ritrovamento
del braccialetto presentava degli interrogativi che potevano avere solo due
risposte. Se il nigeriano l’aveva davvero trovato in macchina Fortuna
poteva essere ancora viva. In caso contrario l’avevano uccisa prima di
derubarla. Allora, piuttosto che pensarla morta, lo zio sceglieva la prima versione,
quella della fuga. E il fatto che l’uomo conservasse tranquillamente il
braccialetto in casa sua invece di disfarsene, lo induceva a essere ottimista.
.
10)
Ostia Antica 30 settembre.
Dai
giornali e le radio locali, le notizie erano rimbalzate sui quotidiani nazionali.
Il vecchio Zola stava seduto sulla sedia a dondolo di vimini davanti al portico
di casa. Era quella una consuetudine dei giorni di festa, dopo il pranzo particolarmente
elaborato che sua figlia preparava la domenica. Dondolandosi piano si mise a
leggere il Messaggero e trasalì nel vedere la fotografia di Fortuna in
prima pagina. Lesse in fretta il resoconto delle notizie di cronaca e restò
poi a lungo a dondolarsi con gli occhi chiusi.
I nipoti,
credendolo addormentato non lo disturbarono, e silenziosi giocarono a biglie
sul prato tagliato di fresco.
Anna, sua figlia,
uscì con una tazzina di caffè da dargli.
Lo vide assopito
e si fermò sulla porta. Tornò allora dentro per sistemare la cucina.
Lavò i piatti e guardò un film alla televisione, presto raggiunta
dai bambini. Fra “La città dei ragazzi”, un vecchio film
americano con Spencer Tracy.
Fuori nel
silenzio totale un leggero venticello muoveva i rampicanti che ombreggiavano
il portico. Scompigliava anche un po’ i capelli bianchi del vecchio, che
li portava lunghi sulla nuca e pettinati all’indietro sulla fronte alta.
Essi contrastavano. così chiari, col colore di cuoio della sua pelle
e gli davano un aspetto bello e sano. La bellezza della vita all’aperto.
L’armonia della serenità di chi è in pace con se stesso.
Zola però
non dormiva. Stava assorto nei suoi pensieri e il volto della ragazza dai capelli
rossi gli si era impresso nella mente. Ripensava al giorno che l’aveva
vista intorno alla fabbrica durante le primissime ore del mattino. Era il primo
di giorno di scuola dei suoi nipoti e lui era uscito in anticipo sull’orario
consueto. Chi poteva essere quella ragazza che andava in giro a quell’ora
e in quei luoghi? L’aveva vista poi introdursi nell’edificio. Cauta
aveva guardato dietro di sé ed era entrata.
“Vive
qui?” si era chiesto Zola. “E con chi?”
Non si era
avvicinato alla ex Breda per la sua natura discreta.
Non capiva
il motivo per cui qualcuno poteva aver deciso di vivere in una fabbrica abbandonata;
però immaginò che colei o coloro che lì si erano rifugiati
non avrebbero gradito una sua intrusione. “Affari loro!” cercò
di pensare per scrollandoseli dalla mente. Sin dall’inizio si era convinto
infatti che la cosa non lo riguardava.
Ora però
la faccenda assumeva un aspetto completamente diverso. Un uomo era rinchiuso
in carcere accusato di aver rapito e forse ucciso una donna scomparsa da più
di un mese. La stessa donna era invece viva, abitava in una vecchia fabbrica,
lui l’aveva vista e, da persona civile, non poteva ignorano. Pensò
che doveva saperne di più. Per forza doveva immischiarsi, almeno per
capire che cosa stava succedendo all’interno di quell’edificio tra
i pini.
La stessa
sera sua figlia uscì col marito per andare a cena a casa di amici. I
bambini restarono col nonno che gli raccontò, come spesso faceva, magnifiche
storie di personaggi inventati:
“Carlo
il bassotto”. “Rudy pie’ veloce”, “Trottola”,
“Michelino testa pazza”. I nipoti scelsero di ascoltare “Trottola”
e lui iniziò a parlare con la sua voce quieta e rassicurante:
“Trottola
era un barbone che chiedeva l’elemosina in piazza del Duomo a Milano.
Non si sapeva la sua età. Era completamente senza capelli e senza peluria
sul volto pieno di rughe. A chi glielo domandava l’uomo rispondeva: “Ho
centodue anni e sono più forte dite!” mostrando con orgoglio i
bicipiti gonfi.
Ogni sera
Trottola andava a dormire dentro un vagone ferroviario in un binario morto della
stazione. Di giorno chiedeva l’elemosina ai viaggiatori frettolosi che
passavano con le valigie, e a mezzogiorno si metteva in fila per prendere un
piatto di minestra dalle suore della Misericordia.
Di pomeriggio
era invece sempre presente in piazza del Duomo dove incontrava altri barboni
o parlava con la gente di passaggio. Oppure lì davanti a tutti faceva
una strana ginnastica con degli esercizi che lo impegnavano a girare su se stesso,
poggiandosi su un piede solo come una trottola. La gente gli si ammucchiava
intorno ad osservare. Gli altri barboni l’applaudivano e lui s’inchinava
per ringraziare felice.
La sua misera
vita era ogni giorno scandita dalle stesse azioni. Gli stessi luoghi lo vedevano
elemosinare una moneta o una sigaretta. Però il ventisette febbraio,
giorno del suo compleanno, invitava tutti i barboni a pranzare nel miglior ristorante
della città. Ma non solo i barboni di Milano.., veniva gente da ogni
parte d’Italia! Per la ricorrenza ognuno già sapeva del banchetto
a base di tartufi e champagne che gli sarebbe stato offerto da Trottola. Centinaia
di persone giungevano da ogni dove, come per un convegno importante, e seduti
a tavola brindavano alla salute del loro ospite.
Un giorno, proprio
durante uno di questi festeggiamenti, Trottola morì. I suoi compagni
tentando di rianimarlo si accorsero che aveva nella tasca della vecchia camicia
un foglio con l’indirizzo di un notaio. “Quando morirò telefonate
a questo numero“, c’era scritto. I barboni seppero così che
Trottola era ricchissimo, addirittura miliardario. E quello che di più
stupì la gente era il fatto che il vecchio barbone aveva ben quindici
case: a Milano, a Como, a Lambrate e a Vigevano. Alcune le aveva affittate,
altre le teneva completamente vuote e non si capiva come mai il vecchio andasse
a dormire sui treni fermi alla stazione.
La notizia del barbone
miliardario si seppe in tutta Milano e anche la disposizione testamentaria lasciata
da Trottola. Egli destinò gran parte dei suoi averi ai Martinitt, cioè
ai bambini poveri del collegio, poi lasciò scritto che si accantonasse
il denaro per offrire per molti anni il pranzo ai suoi amici barboni ogni giorno
ventisette del mese di febbraio.
Così
il banchetto si ripete da molto tempo e i barboni lasciano, a capotavola, il
posto apparecchiato per Trottola. E c’è chi dice che, al taglio
della torta, egli appare per un attimo, alla luce delle candeline.
Il ristorante
che ospita i barboni a banchettare, attualmente ha cambiato nome e si chiama
“Trottola il centenario”.
Marco e Valeria
seguirono il racconto del nonno sforzandosi di non addormentarsi. Nei loro occhi
e quando si infilarono il pigiama per andare a letto nella loro immaginazione
si rifletteva ancora la luce delle candeline di Trottola.
Fortuna
scansò la felce con un ramo d’albero che usava per frugare sotto
i cespugli. Era in cerca di funghi. La stagione calda e la pioggia degli ultimi
giorni lasciavano prevedere che ne avrebbe raccolti un bel po’.
Scartò
una clavaria aurea perché non più fresca e prese più avanti
due giganteschi esemplari di lepiota procera e qualche boletus granulatus.
Era di ottimo
umore, contenta di aver trovato i funghi di buona qualità che conosceva
bene dato il corso di studi che aveva compiuto e l’esperienza sul campo
che le avevano fatto fare in cerca di erbe e quant’altro la natura offriva.
Si avvicinò
a un rovo di more, ormai senza frutti. Sotto ai cespugli però trovò
una serie di funghi prataioli che prese e mise nel lembo del la lunga gonna
insieme agli altri. Tornata dentro ti pulì. Usando alcune foglie scrollò
via la terra, li sciacquò e li mise a cuocere su una griglia improvvisata
fatta da sé con un fu di ferro intrecciato. Li cosparse di erbe aromatiche,
un po’ di sale e mangiò con appetito quel pasto completato da un
liofilizzato di pollo disciolto nell’acqua.
Non aveva
esigenza di mangiare di più perché oltre alla passeggiata del
mattino lei restava per tutto il resto del giorno pressoché ferma a fantasticare,
o camminava un po’ ispezionando ogni angolo della fabbrica.
Nei primi
tempi il suo corpo aveva dovuto superare un periodo di adattamento ed avvertiva
dei segnali dallo stomaco abituato a pasti più completi. Si abituò
perciò ad avere a portata di mano sempre una manciata di pinoli che smorzavano
i morsi della fame. Di Pigne ne aveva una montagna raccolte in un angolo della
sala dov’era il barbecue. Trascorreva ore intere a schiacciare i pinoli
con un sasso e raccoglierne i semi in un piccolo cestino che aveva costruito
intrecciando foglie di papiro. Poi buttava le pigne vuote tra la legna da ardere.
Nella zona
dove per lo più soggiornava c’era abbastanza luce per tutta la
giornata. Il costruttore dell’edificio non aveva lesinato finestre e i
raggi di sole entravano riscaldando l’ambiente fino al tramonto. Ogni
sera, prima del buio lei si preparava ancora qualcosa da mangiare. In genere
cicoria lessata o altre verdure miste condite con succo di mandarino.
E se aveva freddo
beveva un infuso di papavero o di camomilla che le davano tepore e le conciliavano
il sonno.
Più
tardi nella stanza rossa, al buio, attendeva di addormentarsi proseguendo nella
traduzione della frase in francese.
“ENFIN
JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS
ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT
ET IL ÈTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME
UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE.
ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT
APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ
N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE.
MOI QUI ÉCRIS,
J’AI LONGTEMPS MARCHÈ AVANT DE M'ARRETER ET JE VIS DANS CE LIEU
DEPUIS TROIS MOIS. J’HABITE UNE CHAMBRE QUE J’AI PEINT EN ROUGE
AVEC DE LA PEINTURE TROUVÉE DANS DES POTS ENCORE NEUF OUBLIÈS
DANS UN COIN DE L’ESCALIER. CHAQUE NUIT JE REVE QUELQUE CHOSE QUE JE N’ARRIVE
PAS À BIEN COMPRENDRE, MAIS QUI MAINTENANT ME POUSSE À ÉCRIRE...
AVEC DE LA PEINTURE PLUS FONCÉE SUR LE ROUGE DE CES MURS. CHAQUE NUIT
JE SENT PLEURER UN ENFANT... )“
(Finalmente,
dopo mezzogiorno, il sole s’eclissa tra i primi alberi del “boschetto”
e lo spigolo dell’edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi
un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si
rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione
dell’edificio, che enorme, non riesce però a invadere la calma
architettura della flora qui esistente.
Io che scrivo
ho camminato a lungo prima di fermarmi, e vivo in questo posto da due mesi.
La stanza che abito l’ho dipinta di rosso con la vernice trovata in dei
barattoli ancora nuovi dimenticati in un angolo della scala. Ogni notte sogno
qualcosa che non riesco a comprendere bene, ma che mi spinge a scrivere adesso,
con la vernice più scura sul rosso della parete. Ogni notte odo piangere
un neonato… )
A passi veloci Zola giunse nella zona degli scavi dov’era la Sinagoga
ebraica. Lì, nascosto tra i ruderi, attese che dall’altra pane
della strada, oltre le corsie delle automobili, la ragazza uscisse.
Era l’alba
e come aveva previsto, lei uscì.
Zola notò
la massa dei capelli rossi, la gonna chiara, un golfino un po’ stretto
sulle spalle. La intravedeva a tratti perché ogni tanto spariva tra il
fogliame per ricomparire più avanti. Il vecchio prese un binocolo, mise
a fuoco e osservò un primo piano del volto. Si sentì rimescolare
per l’emozione, Era proprio lei! Era senza ombra di dubbio la ragazza
del giornale. Quella che molti credevano rapita o uccisa. Il giovane nigeriano
stava in carcere mentre la sua presunta vittima era qui...
Regolò ancora
la messa a fuoco a mano a mano che lei sembrava avvicinarsi dalla pane sua.
Attraversava un tratto di sentiero quasi scoperto e poté vederla a figura
intera. Perdiana!...
Posò
il binocolo con le mani che gli tremavano. La ragazza era incinta. Si notava
perfettamente. E a giudicare dal volume del suo ventre doveva essere anche in
uno stato di gravidanza inoltrato.
"Cosa
fa qui?" si chiese.
Immaginò
che ci fosse un uomo con lei dentro l’edificio. Forse una persona che
aveva qualcosa da nascondere.
Il buon senso
gli suggeriva di non immischiarsi in questa storia che non prometteva nulla
di buono, tuttavia era un uomo coscienzioso e ripensando a quel nigeriano in
galera decise che doveva saperne di più.
Attese che
la ragazza rientrasse e poi s’incamminò in quella direzione.
Passando
da un albero all’altro si avvicinò all’edificio velocemente.
Entrò, vide la scalinata, si tolse le scarpe e salì. Al primo
piano si fermò a guardare le due porte che aveva di fronte. S’affacciò
con cautela dalla porta di sinistra e scorse la ragazza, accovacciata al centro
della sala, intenta a cuocere qualcosa su un fuoco di legna. Si ritrasse di
scatto perché lei, come sentendosi osservata si era voltata. Attese ancora
restando per un po’ nascosto, poi riaffacciandosi poté accertarsi
che la ragazza era da sola.
Tornò a casa
per governare le bestie e sbrigare le solite faccende del mattino. Al ritorno
dal percorso per portare i nipoti a scuola si sedette sulla sedia a dondolo
e accese la radio per ascoltare le notizie del giorno. Ormai del caso di Fortuna
Fasano si parlava nel radiogiornale nazionale. Dopo poco infatti sentì
la voce dell’incaricato della cronaca:
“Lamin
Moundou, il nigeriano arrestato in seguito alla scomparsa della diciottenne
di Ciaccolo, ha iniziato lo sciopero della fame e ha dichiarato di essere pronto
a rinunciare a vivere se non verrà dimostrata la sua innocenza. La Fasano
è sparita circa un mese e mezzo fa e fino ad oggi non si è ancora
fatta luce sui motivi di quello che appare un autentico eclissarsi tra la folla
di una sagra.
Le forze dell’ordine
hanno trovato il braccialetto della ragazza in casa del sospettato e lo hanno
arrestato. Ora stanno cercando di rintracciare la fidanzata di Lamin che potrebbe
testimoniare in suo favore. Partita per il suo paese d’origine, e attualmente
irreperibile, la donna sarebbe stata presente quando Fortuna fu accolta in macchina
dopo aver fatto l'autostop e chiesto di essere accompagnata alla stazione di
Latina.
La comunità
di immigrati di colore della zona sta organizzando una manifestazione in favore
dell’arrestato. Gli investigatori non escludono però un rilascio
per insufficienza di indizi, se non accadranno fatti nuovi.”
Zola spense la radio e meditò a lungo. Capiva la disperazione del giovane Lamin e una grande responsabilità pesava sulla sua coscienza. Soprattutto perché lui era forse l’unico a conoscenza del fatto che Fortuna era viva. Avrebbe dovuto denunciare ciò che sapeva ai carabinieri. Tuttavia restò incollato al suo dodolo, immobile come una statua, a cercare un’altra soluzione.
Fortuna
aveva sognato sua madre. Si era svegliata in completo stato di grazia per le
immagini della notte trascorsa. Ricordava le mani di sua madre sulle sue, la
sua voce che diceva “Sta’ serena”, mentre sorridendo le toccava
il ventre con una leggera carezza.
Soprappensiero camminò
più a lungo delle altre mattine. Raccolse della rucola e si spinse fino
ad uno spiazzo privo di vegetazione, alle spalle della fabbrica, dove dal terreno
qualche volta erano affiorati dei reperti archeologici: pezzetti di anfora,
una moneta romana illeggibile sotto lo strato verde di metallo decomposto, dei
frammenti di utensili. Affondava con le scarpe sul terreno particolarmente sabbioso
e morbido. La guida aveva detto che in quel punto c’era una volta stato
il mare; immaginò perciò di avere onde che le bagnavano i piedi.
Ma si accorse, osservando la grande distesa sabbiosa, di essersi allontanata
troppo dal suo rifugio, e lì, senza la protezione del fogliame, chiunque
avrebbe potuto vederla. Velocemente tornò indietro fino alla pineta,
poi rallentò. Girò, questa volta verso il lato sinistro dell’edificio,
contrariamente al percorso che di solito faceva per rientrare. Vide allora,
proprio al limitare del boschetto di pini, un albero di fichi, carico di frutti.
Era del genere con maturazione autunnale e si trovava nel pieno della sua produzione.
Fortuna raccolse tutto quello che la sua larga e lunga gonna poteva contenere.
Prima però ne mangiò il più possibile. Golosamente li sbucciava
e ingoiava uno dietro l’altro. Raccolse anche delle larghe foglie in cui,
rientrando. mise tutti i frutti raccolti.
Una volta
dentro avverti un peso allo stomaco e sedette sul suo plaid ad aspettare che
le passasse il malessere. Ma continue spinte provenienti dall’interno
del suo ventre le impedivano di accomodarsi in una posizione definitiva. Si
sdraiò da un lato e toccando il punto in cui una piccola protuberanza
emergeva dalla pancia rotonda, chiese:
“Come
sei piccolo?”
Ottenne in
risposta dei piccoli fruscii. Riprese quindi a parlargli:
“Se
tu fossi un bambino normale dovrei credere che questa fuga sia stata una follia.
Dovrei illudermi di aver letto male l’ecografia, di essermi sbagliata.
Volesse Dio che mi fossi sbagliata! Ed è in questa speranza che vivo.
Altrimenti sarei già morta. Io con te. piccolo Polifemo saremmo già
morti. La tua vita è legata alla mia e comunque tu sia io non ti lascerò
solo”.
Una
stupida buca nella quale aveva poggiato il piede, quella mattina le causò
la slogatura di una caviglia. Avvertì un dolore acutissimo. Si trascinò
con grande sforzo tra i sentieri dei boschi e riuscì a trovare, per curarsi.
la celidonia, l’erba delle rondini cioè, che raccolse in quantità
sufficiente a farsi degli impacchi. Tornò indietro mentre il dolore alla
caviglia aumentava. Era ormai vicina all’ingresso della fabbrica quando
vide, sotto una quercia, un cestino con delle uova. Erano uova di gallina.
Chi poteva
averle dimenticate?
Con fatica
e dolore cercò di rintanarsi in fretta e risalita su per le scale di
corsa, si accorse che il cuore le martellava nel petto per la paura. Restò
in attesa di sentire rumori di passi. ma il silenzio era assoluto. Si affacciò
cautamente da un angolo di finestra e notò che le uova erano sempre lì.
Passò molto tempo a spiare fuori, ma non vide anima viva nei paraggi.
Si preparò gli impacchi di celidonia che le alleviarono il dolore alla
caviglia. Poté perciò, zoppicando, darsi da fare per cuocersi
il pasto. Scaldò un liofilizzato di carne, bollì della cicoria
e mangiò con poco appetito perché l’ansia le aveva chiuso
lo stomaco. Restò per tutta la giornata ad ascoltare il fruscio del vento
tra gli alberi. Quell’unico rumore, nel silenzio assoluto, rotto solo
dal passaggio qualche automobile in lontananza, la rassicurava, perché
escludeva altre presenze nelle vicinanze.
Verso sera bevve
un infuso di verbena mista a camomilla e si calmò per affrontare la notte.
Al buio riprese il suo passatempo notturno prima di addormentarsi. Tradusse
ancora un pezzetto di scritta dalla parete rossa:
“ENFIN
JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS
ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT
ET IL ÈTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME
UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE.
ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT
APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ
N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE.
MOI QUI ÉCRIS,
J’AI LONGTEMPS MARCHÈ AVANT DE M’ARRETER ET JE VIS DANS CE
LIEU DEPUIS TROIS MOIS. J’HABITE UNE CHAMBRE QUE J’AI PEINT EN ROUGE
AVEC DE LA PEINTURE TROUVÉE DANS DES POTS ENCORE NEUF OUBLIÈS
DANS UN COIN DE L’ESCALIER. CHAQUE NUIT JE REVE QUELQUE CHOSE QUE JE N’ARRIVE
PAS À BIEN COMPRENDRE, MAIS QUI MAINTENANT ME POUSSE À ÉCRIRE,
AVEC DE LA PEINTURE PLUS FONCÉE SUR LE ROUGE DE CES MURS.
CHAQUE NUIT
JE SENT PLEURER UN ENFANT. CHAQUE NUIT. SES VAGISSEMENTS RETENTISSENT DANS LE
BÀTIMENT JUSQU'À CE QUE ME RÉVEILLE, MON COEUR BAT LA CHAMADE
ET JE SUIS PLEIN DE PEUR.
DE QUI EST
CET ENFANT?
POURQUOI
PLEURE-T-IL?
JE N’AI AUCUNE
RÉPONSE ET JE NE COMPRENDS PAS. JE N’AI PAS D’ENFANT. JE
N’AI LAISSÉ AUCUNE FEMME DANS LES VILLES QUE J'AI HABITÉES.
JE N’AI PAS DE REMORDS. DE QUI EST ALORS CET ENFANT EN LARMES?”
(Finalmente,
dopo mezzogiorno, il sole s’eclissa tra i primi alberi del “boschetto”
e lo spigolo dell’edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi
un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si
rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione
dell’edificio, che enorme, non riesce però ad invadere la calma
architettura della flora qui esistente.
lo che scrivo
ho camminato a lungo prima di fermarmi e vivo in questo posto da tre mesi. La
stanza che abito l’ho dipinta di rosso con la vernice trovata in dei barattoli
ancora nuovi dimenticati in un angolo della scala. Ogni notte sogno qualcosa
che non riesco a comprendere bene, ma che mi spinge a scrivere adesso, con la
vernice più scura sul rosso della parete. Ogni notte odo piangere un
neonato. Ogni notte. I suoi vagiti riecheggiano nell’edificio fino a svegliarmi,
col cuore in gola e la paura.
Di chi è
figlio quel bambino?
Perché piange?
Non ho risposte
e non comprendo. Non ho figli, non ho lasciato donne nelle città in cui
ho abitato. Non ho rimorsi. Di chi è allora questo neonato in lacrime?…
)